il manifesto 10.6.16
Nella città informale degli schiavi
La tenda-bar, la baracca-macelleria e persino una moschea e una ciclofficina tra polvere e rifiuti
di Angelo Mastrandrea
ROSARNO
Il bar dov’è stato ucciso Sekine Traorè è stato messo in piedi in una
delle tende azzurre con la scritta «Ministero dell’Interno».
Dall’ingresso principale della baraccopoli di San Ferdinando ci si
arriva voltando a sinistra dopo aver superato una macchia di bruciato
che è tutto quel che rimane di un’altra tenda, carbonizzata
dall’esplosione di una bombola del gas, più avanti, una bancarella
improvvisata di abbigliamento.
Alcuni immigrati – come il
ventisettenne maliano ucciso da un carabiniere l’altra mattina – vi
trascorrono intere giornate, bevendo alcol di pessima qualità e a volte
inveendo contro la sorte che li ha costretti ad abbandonare i paesi di
provenienza per incontrare l’Italia peggiore.
Oltre che ai malanni
causati dalle dure condizioni di vita e di lavoro e dalle precarie
condizioni igienico-sanitarie e alimentari, l’ambulatorio che Emergency
ha aperto a Polistena, in un palazzo confiscato al clan Versace, ha
messo a disposizione dei migranti di San Ferdinando uno psicologo. «I
problemi sono tanti, da quello del superamento della traversata nel
Canale di Sicilia alla perdita dei familiari», spiega la coordinatrice
Alessia Mancuso.
Per questo ogni giorno una navetta
dell’associazione fondata da Gino Strada, con a bordo un mediatore
culturale e un infermiere, percorre 60 chilometri tra campi e
baraccopoli per andare ad ascoltare i migranti e, se è il caso,
trasportarli all’ambulatorio per una visita specialistica.
Sei
anni dopo la rivolta che fece parlare di loro per qualche giorno, si
sono resi conto che per loro il futuro non potrà essere che uguale, se
non peggiore, del presente. Per questo, incattiviti e rassegnati, molti
di loro non credono più alle promesse, ma quasi non si ribellano più. La
gran parte di loro, in questi giorni, sono rimasti a San Ferdinando
pure se in questa stagione lavoro non ce n’è. Negli anni passati
andavano in Puglia o nelle campagne del casertano e del salernitano per
la raccolta dei pomodori. Oggi preferiscono rimanere a San Ferdinando a
non far nulla perché hanno capito che il gioco non vale la candela e per
loro, in ogni caso, non cambierà nulla.
Il presidente della
cooperativa Valle del Marro, Domenico Fazzari, ha un’opinione chiara su
quanto è accaduto negli ultimi anni: «La ribellione del 2010 è stata
un’occasione mancata per i migranti, che avevano l’opportunità di
risollevarsi dall’oppressione». Invece, spenti i riflettori mediatici,
la catena dello sfruttamento ha ripreso a funzionare come prima: 18
centesimi al chilo pagati dai produttori ai piccoli coltivatori di
agrumi, 25 euro al giorno da quest’ultimi agli africani, 5 euro dai
migranti ai caporali. Una catena al ribasso nella quale ogni centesimo
guadagnato o perduto può risultare importante.
La Valle del Marro,
grazie al contributo della fondazione fiorentina «Il cuore si
scioglie», ha offerto sei borse di lavoro, con regolare contratto («una
vera e propria rivoluzione, da queste parti»), ad altrettanti immigrati
della baraccopoli (calciatori del Koa Bosco, la squadra di calcio della
baraccopoli che quest’anno ha giocato nel campionato di Seconda
categoria), portandoli a lavorare nei loro terreni, confiscati alle
cosche di Rosarno e Polistena. I loro prodotti sono finiti sugli
scaffali delle Coop, che ha firmato un protocollo d’intesa con
l’associazione antimafia Libera e con una campagna denominata «Buoni e
giusti» ha individuato tredici filiere «etiche», dove il prodotto che
finisce sugli scaffali è controllato fin al momento in cui viene
staccato dall’albero.
L’obiettivo ora è di trovare altri
finanziamenti per garantire contratti stabili a più immigrati. Qualcosa
di analogo fanno i giovani della rete «Sos Rosarno», che sono riusciti a
mettere in piedi una propria catena produttiva e distributiva,
parallela ed estranea ai tradizionali canali di mercato. Autoproduzione e
filiere controllate, salari decenti e lavoro senza sfruttamento: per
gli attivisti è la via giusta per risolvere una questione andata in
cancrena per la totale assenza della politica.
Nel frattempo la
baraccopoli di San Ferdinando è diventata una vera e propria cittadella
autogestita: a destra del bar, annunciato da una tabella improvvisata,
c’è una macelleria. Più avanti, vicino alle toilette chimiche, si
aggiustano biciclette. Altrove, per cinquanta centesimi si può mettere
dell’acqua a scaldare sul fuoco e c’è pure una moschea improvvisata.
Attorno alla tendopoli ufficiale, proliferano le baracche messe in piedi
alla meglio dai nuovi arrivati, mentre un capannone industriale
dismesso è stato adibito a dormitorio.
Ma questa non è che la
punta dell’iceberg: non si ha una stima precisa, infatti, delle
centinaia di «invisibili» che dormono in tuguri improvvisati nelle
campagne in cui sono impiegati.
Per porre fine a una situazione
ormai esplosiva, le associazioni della Piana di Gioia Tauro stanno
lavorando a una legge regionale che risolva la questione abitativa. Con
loro c’è la Cgil, in particolare lo Spi e la Flai, i cui attivisti del
sindacato di strada percorrono ogni giorno le campagne con un furgoncino
per avvicinare i lavoratori e istruirli sui loro diritti. Il modello è
«l’accoglienza diffusa».
In buona sostanza, si tratta di censire e
rendere disponibili per gli immigrati le case sfitte. Ma tutto è
complicato dalla latitanza delle istituzioni, dalla crisi e dalla
deflazione economica che spingono sempre più giù i compensi e riducono
le prospettive di lavoro.
«Dobbiamo capire che dare una mano agli
immigrati è dare una mano a noi stessi», dice Fazzari, per il quale «non
si potrà mai parlare di legalità da queste parti finché rimarranno in
piedi baraccopoli come quella di San Ferdinando». Il governo mafioso del
territorio passa pure per il mantenimento di uno status quo che giova a
cosche e sfruttatori.
L’uccisione del giovane Sekine Traorè da parte di un rappresentante dello Stato è la ciliegina sulla torta.