il manifesto 10.8.16
L’appello della famiglia Regeni: «Rompete il muro di silenzio»
Verità
per Giulio. Il ricercatore friulano controllato dai servizi già poco
dopo il suo arrivo al Cairo, secondo un dossier anonimo recapitato
all’ambasciata italiana in Svizzera e consegnato alla procura di Roma
di Eleonora Martini
«Ribadiamo
la necessità di rompere il muro di silenzi e bugie intorno
all’uccisione di nostro figlio». Lancia un appello ancora più accorato,
la famiglia Regeni, «alla luce delle ultime notizie apparse su
Repubblica circa l’esistenza di una testimonianza che potrebbe far luce
sulle circostanze del sequestro e della uccisione di Giulio». E lo fa a
trecentosessanta gradi – dal Cairo a Cambridge – «affinché tutti coloro
che possono contribuire alle indagini lo facciano senza remore, anche
recandosi presso le nostre ambasciate all’estero».
Sono piuttosto
inquietanti, infatti, alcuni particolari contenuti in un documento
anonimo recapitato all’ambasciata italiana in Svizzera di cui dà notizia
il quotidiano diretto da Mario Calabresi. In particolare il fatto che
«poco dopo il suo arrivo al Cairo, nel settembre 2015», i servizi
segreti interni egiziani (la Sicurezza nazionale) avrebbero aperto un
fascicolo riservato sul conto di Regeni con «le accuse di spionaggio,
cospirazione e appartenenza a una rete terroristica interna al Paese che
progetta l’eliminazione del presidente Al Sisi».
Dunque, non dopo
la ormai nota partecipazione di Giulio all’assemblea sindacale dell’11
dicembre 2015, ma «poco dopo» il suo arrivo. Inevitabile chiedersi
perché faceva così tanta paura, al seppure ossessivamente paranoico
regime egiziano, un ricercatore friulano dell’Università di Cambridge
appena arrivato per lavorare alla sua tesi di dottorato. Non era l’unico
infatti, e in quel frangente neppure il più coinvolto, che studiava i
movimenti sindacali egiziani.
È la seconda volta che, con uno
“scoop”, Repubblica ricostruisce una «pista» plausibile della vicenda
Regeni attraverso una fonte anonima. Ma stavolta il dossier, datato 25
aprile e scritto in arabo da qualcuno che si definisce il tramite di
«informazioni sul caso Regeni provenienti da una delle principali
istituzioni dell’esecutivo in Egitto», è stato recapitato alla nostra
ambasciata a Berna che lo ha trasmesso alla procura di Roma. Il pool di
Colaiocco ne sta ora vagliando il contenuto. In questo caso, la fonte
anonima entrerebbe maggiormente nei dettagli di un terribile scenario
già più volte ipotizzato.
Secondo la ricostruzione di Repubblica,
Regeni sarebbe diventato in poche settimane «preda indifesa di una
caccia libera tra gli apparati dello Stato – Servizi militari e Servizi
civili – in lotta per contendersi un posto al sole nella gerarchia del
Regime. Fino all’esito finale. Prima il sequestro, la sera del 25
gennaio, quindi le torture per mano dei Servizi militari». Un vortice
spaventoso in cui sarebbe finito l’ignaro ricercatore che nell’ottobre
2015 avrebbe avuto un contatto con un certo «Whalid», secondo quanto
avrebbero appurato gli stessi inquirenti italiani, «uno dei ragazzi –
sarebbe scritto nel dossier consegnato alla procura – conosciuti come i
“Giovani della Rivoluzione del 25 gennaio 2011” e appartiene al gruppo
“Al Ishtirakyun al Thawryun”, i Socialisti Rivoluzionari, con sede in
via Mourad 7 a Gyza».
Soprattutto, rivela la fonte anonima,
«Whalid» è parente del generale Hegazi, che è a capo della Sicurezza
nazionale e che cerca di coprirlo. Motivo per il quale, il 19 dicembre
2015, Hegazi viene sollevato dall’incarico e il fascicolo su Regeni
passa, per volere del generale Abbas Kamil, potente braccio destro di Al
Sisi, nelle mani dei Servizi militari. Soprattutto, riferisce
Repubblica, il nuovo capo delle indagini diventa «l’ufficiale Jalal al
Dabbagh conosciuto con il nome di battaglia di “Al Dhabbah”, il Boia,
una “belva umana”, che presiede all’industria dei desaparecidos del
Regime».
A questo punto la ricostruzione dello scenario politico
proposta nel documento anonimo diventa assolutamente plausibile. «Il
ministro dell’Interno Abdel Ghaffar entra nella contesa – riferisce
Repubblica – Con una lettera inviata ad Al Sisi (di cui il dossier
riporta quello che ne sarebbe il testo), denuncia il “trasferimento
illegale della pratica”, e chiede che il caso venga restituito alla
Sicurezza Nazionale».
Le cose andarono diversamente, e Giulio
Regeni, secondo l’anonimo, venne sequestrato la sera del 25 gennaio
proprio dai Servizi militari all’uscita della stazione metro di Naguib, e
successivamente torturato e ucciso dagli uomini del «Boia». Da quel
momento però, da quanto Ghaffar esplicita il suo risentimento ad Al
Sisi, inizia il braccio di ferro tra il ministro dell’Interno e i
Servizi militari, coperti dal potente Kamil. Fino al tentativo, poi
abortito, di sostituire Ghaffar nel «rimpasto di governo» annunciato il
19 marzo dallo stesso generale golpista.
L’ultima beffa dei
Servizi militari sarebbe stata la riconsegna del corpo di Giulio alla
Sicurezza nazionale con l’ordine si seppellirlo laddove finiscono gli
altri desaparecidos. Un ordine disatteso proprio per vendetta. Il
cadavere venne abbandonato, con a fianco – particolare mai svelato
finora – una coperta militare, come messaggio esplicito, nei pressi
«della struttura in cui era stato consegnato dai Servizi militari». Alla
procura di Roma, ora, l’arduo compito di capire quanto veritiero è
questo documento. Ma la verità politica è già nota.