venerdì 10 giugno 2016

il manifesto 10.8.16
L’appello della famiglia Regeni: «Rompete il muro di silenzio»
Verità per Giulio. Il ricercatore friulano controllato dai servizi già poco dopo il suo arrivo al Cairo, secondo un dossier anonimo recapitato all’ambasciata italiana in Svizzera e consegnato alla procura di Roma
di Eleonora Martini

«Ribadiamo la necessità di rompere il muro di silenzi e bugie intorno all’uccisione di nostro figlio». Lancia un appello ancora più accorato, la famiglia Regeni, «alla luce delle ultime notizie apparse su Repubblica circa l’esistenza di una testimonianza che potrebbe far luce sulle circostanze del sequestro e della uccisione di Giulio». E lo fa a trecentosessanta gradi – dal Cairo a Cambridge – «affinché tutti coloro che possono contribuire alle indagini lo facciano senza remore, anche recandosi presso le nostre ambasciate all’estero».
Sono piuttosto inquietanti, infatti, alcuni particolari contenuti in un documento anonimo recapitato all’ambasciata italiana in Svizzera di cui dà notizia il quotidiano diretto da Mario Calabresi. In particolare il fatto che «poco dopo il suo arrivo al Cairo, nel settembre 2015», i servizi segreti interni egiziani (la Sicurezza nazionale) avrebbero aperto un fascicolo riservato sul conto di Regeni con «le accuse di spionaggio, cospirazione e appartenenza a una rete terroristica interna al Paese che progetta l’eliminazione del presidente Al Sisi».
Dunque, non dopo la ormai nota partecipazione di Giulio all’assemblea sindacale dell’11 dicembre 2015, ma «poco dopo» il suo arrivo. Inevitabile chiedersi perché faceva così tanta paura, al seppure ossessivamente paranoico regime egiziano, un ricercatore friulano dell’Università di Cambridge appena arrivato per lavorare alla sua tesi di dottorato. Non era l’unico infatti, e in quel frangente neppure il più coinvolto, che studiava i movimenti sindacali egiziani.
È la seconda volta che, con uno “scoop”, Repubblica ricostruisce una «pista» plausibile della vicenda Regeni attraverso una fonte anonima. Ma stavolta il dossier, datato 25 aprile e scritto in arabo da qualcuno che si definisce il tramite di «informazioni sul caso Regeni provenienti da una delle principali istituzioni dell’esecutivo in Egitto», è stato recapitato alla nostra ambasciata a Berna che lo ha trasmesso alla procura di Roma. Il pool di Colaiocco ne sta ora vagliando il contenuto. In questo caso, la fonte anonima entrerebbe maggiormente nei dettagli di un terribile scenario già più volte ipotizzato.
Secondo la ricostruzione di Repubblica, Regeni sarebbe diventato in poche settimane «preda indifesa di una caccia libera tra gli apparati dello Stato – Servizi militari e Servizi civili – in lotta per contendersi un posto al sole nella gerarchia del Regime. Fino all’esito finale. Prima il sequestro, la sera del 25 gennaio, quindi le torture per mano dei Servizi militari». Un vortice spaventoso in cui sarebbe finito l’ignaro ricercatore che nell’ottobre 2015 avrebbe avuto un contatto con un certo «Whalid», secondo quanto avrebbero appurato gli stessi inquirenti italiani, «uno dei ragazzi – sarebbe scritto nel dossier consegnato alla procura – conosciuti come i “Giovani della Rivoluzione del 25 gennaio 2011” e appartiene al gruppo “Al Ishtirakyun al Thawryun”, i Socialisti Rivoluzionari, con sede in via Mourad 7 a Gyza».
Soprattutto, rivela la fonte anonima, «Whalid» è parente del generale Hegazi, che è a capo della Sicurezza nazionale e che cerca di coprirlo. Motivo per il quale, il 19 dicembre 2015, Hegazi viene sollevato dall’incarico e il fascicolo su Regeni passa, per volere del generale Abbas Kamil, potente braccio destro di Al Sisi, nelle mani dei Servizi militari. Soprattutto, riferisce Repubblica, il nuovo capo delle indagini diventa «l’ufficiale Jalal al Dabbagh conosciuto con il nome di battaglia di “Al Dhabbah”, il Boia, una “belva umana”, che presiede all’industria dei desaparecidos del Regime».
A questo punto la ricostruzione dello scenario politico proposta nel documento anonimo diventa assolutamente plausibile. «Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar entra nella contesa – riferisce Repubblica – Con una lettera inviata ad Al Sisi (di cui il dossier riporta quello che ne sarebbe il testo), denuncia il “trasferimento illegale della pratica”, e chiede che il caso venga restituito alla Sicurezza Nazionale».
Le cose andarono diversamente, e Giulio Regeni, secondo l’anonimo, venne sequestrato la sera del 25 gennaio proprio dai Servizi militari all’uscita della stazione metro di Naguib, e successivamente torturato e ucciso dagli uomini del «Boia». Da quel momento però, da quanto Ghaffar esplicita il suo risentimento ad Al Sisi, inizia il braccio di ferro tra il ministro dell’Interno e i Servizi militari, coperti dal potente Kamil. Fino al tentativo, poi abortito, di sostituire Ghaffar nel «rimpasto di governo» annunciato il 19 marzo dallo stesso generale golpista.
L’ultima beffa dei Servizi militari sarebbe stata la riconsegna del corpo di Giulio alla Sicurezza nazionale con l’ordine si seppellirlo laddove finiscono gli altri desaparecidos. Un ordine disatteso proprio per vendetta. Il cadavere venne abbandonato, con a fianco – particolare mai svelato finora – una coperta militare, come messaggio esplicito, nei pressi «della struttura in cui era stato consegnato dai Servizi militari». Alla procura di Roma, ora, l’arduo compito di capire quanto veritiero è questo documento. Ma la verità politica è già nota.