il manifesto 10.6.16
Shakespeare
Un’isola della mente che è approdo della vita
Alla
«Tempesta» che stravolge le esistenze, ma ridà senso alla «passione del
vivere», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua
ultima stagione. Oggi Nadia Fusini ne dà una rilettura empatica, per
Einaudi
di Corrado Bologna
«Navigare è
necessario, non è necessario vivere», diceva il motto della Lega
Anseatica, la potente associazione di armatori e mercanti che per secoli
dominò i mari del Nord Europa. La vita come opzione: una sfida
prometeica. Perfino metafisica e allegorica, poi, l’idea che sia
impensabile non andar per mare, non scivolare nello spazio sulla materia
liquida che sfugge alla presa e non si ferma mai nel suo ritmo
preistorico: la cosa più vicina, sul nostro globo, all’eternità e
all’ansia terribile del profondo, dello smisurato. Via via che le
scoperte dei nuovi mondi si moltiplicano e compaiono continenti
impensati, far rotta sul mare significa sempre più esplorare e
conoscere, conquistare l’oltre.
Il regno della dea Fortuna
I
poeti interpretano questo bisogno molto concreto di ulteriorità, vi
riconoscono la traccia di una memoria arcaica, forse quella mitica dei
primi navigatori nel Mediterraneo. Chissà se Dante navigò mai. Certo
nella Commedia un immaginario metaforico di straordinaria potenza
figurale è imperniato sul mare e sulla navigazione: «la navicella
dell’ingegno» su cui si apre il Purgatorio; l’Italia lacerata dai
conflitti come una «nave senza nocchiere in gran tempesta» del VI canto
purgatoriale; «lo gran mar dell’essere» all’inizio del Paradiso, dove
noi poveri marinai «in piccioletta barca» veniamo invitati a non
metterci in quell’acqua pericolosa, che «già mai non si corse». Leopardi
nell’Infinito, e dopo di lui l’Ungaretti nell’Allegria di naufragi,
riprendono e conducono l’allegoria fino al naufragio del pensiero, esito
tragico e «dolce» del desiderio dell’oltre nella modernità.
Su
tutti e tutto regna la dea Fortuna, incontrollabile sovrana della terra,
dell’acqua, dell’aria: fortunale si chiama, infatti, la tempesta che
può rovesciare le navi e il destino, la sorte degli uomini e dei loro
beni. Signora del caso imprevista, sovrumana, la tempesta è figura del
tempo minacciato, del tempo come minaccia, che mette a repentaglio
l’economia e la vita. L’immaginario collettivo è ossessionato dalla
Fortuna e dai fortunali. Mare e fortunale, onde terrificanti e isole che
salvano i naufraghi, riempiono le carte della letteratura: la tempesta è
immagine dell’esistenza dall’Odissea all’Eneide, da Robinson Crusoe a
Moby Dick.
Alla tempesta che stravolge le esistenze, ma che può
restituir senso alla «passione del vivere» trasformando «il mare di
guai» in un «mare che salva», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto
dramma della sua ultima stagione, la tragedia di un naufragio e di un
salvataggio su un’isola piena di vertigini e di mostruosità, di
meraviglie e di terrore: un universo in miniatura, un labirinto e
un’utopia, come quelle isole reali verso cui «corrono audaci i capitani
di Elisabetta», la regina-isola-vergine sovrana di un’isola
imprendibile, che una tempesta ha fortunosamente salvato affondando
l’Armada Invencible di Filippo II di Spagna che tentava l’invasione
(1587).
L’isola shakespeariana è soprattutto «un’isola della
mente», «un’esperienza dell’anima». Così Nadia Fusini in Vivere nella
tempesta (Einaudi, pp. 205, euro 18,50) legge i tratti di una «commedia
dell’esistenza umana» carica di «una dimensione “spirituale”», un
testo-conchiglia da portare all’orecchio per riconoscervi la voce di
innumerevoli altri testi, frammisti al «suono della vita».
L’isola
del mago-artista Prospero è popolata da «spiriti», da cose e
avvenimenti new, novel, strange, da wonder, admiration, amazament, ossia
«ombre, demoni, emanazioni celesti, creature evocate grazie all’arte
della magia». Su di essa «non fanno che ripetersi naufragi e colpi di
stato, mentre la lingua è illuminata da lampi che prefigurano nel modo
del ritorno storie antiche». Il vocabolario della tragedia classica
rinasce qui sotto il segno del deinós, del «tremendo» che, come ogni
autentico inizio di conoscenza, è nel contempo fear and wonder,
«terrifico e meraviglioso», fin dal significato nascosto dei nomi dei
personaggi: Miranda, mirabilis seduttrice del lettore, edenica Eva con
il suo Adamo-Fernand, figlio del re di Napoli, stupefatti dinanzi al
masque che Prospero mette in scena nell’isola-paradiso; l’aereo Ariel,
«spirito etereo», «volatile e volubile», arioso angelo mercuriale che
però Prospero definisce slave, «schiavo»; il «materiale e pesante»
Caliban, this thing of darkness, «la cosa di tenebre» che ancora una
volta l’onnipotente Prospero «riconosce sua», spaventoso, selvaggio
cannibal caribico mosso dal medesimo «spirito speculativo e ironico del
saggio sui cannibali» di Michel de Montaigne, che Shakespeare poté
conoscere nella versione inglese di John Florio, del 1603.
Tutto è materia che si disfa
«Siamo
fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e
nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita», scandisce
Prospero all’inizio del IV atto della Tempesta. La vita è sogno e il
teatro è il suo doppio. Presto si scoprirà che, come ogni altra cosa
sull’isola, anche il naufragio è uno spettacolo messo in scena, e che
Antonio e Sebastiano fanno parte di una compagnia teatrale. Il mondo
intero, il globo e il Globe Theatre in cui la rappresentazione della
vita va in scena, tutto si disferà like this insubstantial pageant,
«come questo spettacolo senza sostanza».
Al pari di Shakespeare il
mago-regista Prospero trama scenari teatrali di ampiezza cosmica; vuole
dar forma all’informe dell’esistenza che con la forza di un fortunale
sommerge le volontà degli uomini. Tipicamente rinascimentale, modellato
su Giordano Bruno e John Dee, il suo (come quello shakespeariano) è un
«umanesimo magico, ermetico e alchemico». Ma, «per fortuna», come
Prospero anche Shakespeare «sembra voler trafficare più con la vita che
con la morte», e il dramma si apre alla commedia, nello stesso senso
positivo per cui Dante definì Commedia il suo poema «a lieto fine».
La
Tempesta è una commedia delle mutazioni, «un inno alla metamorfosi», a
sea-change: il fortunale che sommerge la nave conduce a buona fortuna, e
il naufragio diviene «un annegamento battesimale». Il primo a
convertirsi è Prospero: la sua metanoia libera Ariel dal dolore, e Ariel
a lui insegna la compassione. Dal momento che ogni cosa nella Tempesta
teatrale e nella tempesta della vita è spettacolo illusorio e cerimonia
iniziatica, il salvataggio dal naufragio, l’approdo sull’isola, si
trasformano in un’immersione-riemersione di salvezza.
Qui credo si
possa cogliere il centro più originale della lettura di Nadia Fusini:
se per l’Europa rinascimentale navigare necesse est, nella Tempesta, «in
modo ironico o paradossale, sembra che per vivere sia necessario
naufragare». La catastrofe si volge in rinascita, e come la vita anche
la tempesta si svela essere una prova rigeneratrice: «chi l’attraversa
ne esce trasformato. Il mare sommerge, lava e rigenera, trasforma e
muta…». E l’illusoria isola di Prospero, microscopico teatro del mondo,
incarna «la fantasia di creare fra terra e mare e cielo un mondo altro».
L’immaginazione
di Shakespeare fu certo «infiammata» dai resoconti di chi si salvò su
un’isola felice nel naufragio della Sea-Venture del 1609, scomparsa,
mentre la Tempesta veniva concepita, tra i flutti dell’Oceano Atlantico
durante un viaggio verso la Virginia, terra dedicata alla regina-vergine
Elisabetta. In profondità però nella lettura di Nadia Fusini, sempre
empaticamente in contrappunto creativo con il testo shakespeariano, la
Tempesta si rivela una geniale meditazione sulla vita e sulla morte,
sull’illusione e sulla pietà per sé e per gli altri, sull’energia che si
sprigiona nello sforzo di salvarsi in quella tempesta che è l’esistere:
«i mari minacciano, ma salvano»; e «un uomo è un uomo se lotta contro
la morte, non tanto per egoismo, quanto per il rispetto della vita
stessa».
Dal salvataggio alla salvezza
«Di vivere si tratta
nella Tempesta», che è «una specie di Bildungsroman» in forma di teatro:
di vivere, di imparare a vivere; «chi attraverso il rimorso e il
pentimento e l’autodisciplina saprà mutare la salvezza materiale in
redenzione, quello si salverà. Per lui il salvataggio muterà in salvezza
spirituale e la liberazione dall’onda in redenzione».Come nella
Tempesta di Giorgione, un fulmine squarcia e illumina il dramma di
Shakespeare, permettendo al lettore di «incurvarsi verso l’interiorità»,
di «guardarsi nell’anima»: così Prospero insegna ai suoi nemici.
L’incanto terapeutico dell’immaginazione creatrice, la meraviglia
dell’arte, ci fanno riemergere dai naufragi della vita, come Ulisse
sull’Isola dei Feaci, come Dante che, «uscito fuor del pelago a la riva,
/ si volge a l’acqua perigliosa e guata»: e così nasciamo a vita nuova,
stupefatti nell’ascoltare il nostro respiro che dopo il panico
dell’apnea riprende, ritmato, ad alitare e a farsi voce.