il manifesto 10.6.16
Tutti giù dal carro
Chi sale e chi scende dal carro del vincitore ha in comune la dote della velocità, del tempismo.
di Norma Rangeri
Dalle
trionfali elezioni europee del 40% a queste comunali dell’emorragia
nelle grandi città sembra trascorso un secolo, e tira aria di un fuggi
fuggi generale.
Finiti i tempi dei laudatores in fila alla porta
di palazzo Chigi e del partito, quando davanti alla televisione
assistevamo alle repentine metamorfosi renziane dei fu bersaniani di
ferro, quando i cespugli d’ogni stagione erano pronti a fare da contorno
al giglio magico.
Ancora all’inizio della campagna elettorale per
le amministrative, i sindaci sicuri di farcela al primo turno
sembravano contendersi il corpo del leader, felici di poterlo esibire ai
loro aperitivi (le piazze sono passate di moda, solo i 5 stelle hanno
osato chiudere la campagna a piazza del Popolo, premiati dalle urne).
Poi
dopo la batosta del 6 giugno sembra iniziata la corsa a scendere dal
carro. Ormai è una gara a tenere il presidente-segretario alla larga dai
ballottaggi, e perfino lo stesso Renzi sembra volersi allontanare un
po’ da se stesso (il giorno del voto sarà a Mosca da Putin).
Il
severo prosciugamento dell’insediamento sociale del Pd, il rischio di
perdere al ballottaggio, spingono i candidati sindaci di Torino, Bologna
e Milano lontani dal premier. Quel suo ostinarsi a derubricare il voto
locale per concentrarsi su quello del referendum costituzionale è stato
un errore e per questo non lo vogliono accanto in questi ultimi giorni
di campagna elettorale («Io non sono del Pd, sono un manager», così Sala
in Tv).
Ieri lo hanno fischiato non i centri sociali, ma i
commercianti riuniti nell’assemblea della Confcommercio, la pancia della
piccola impresa familiare, una parte del ceto medio colpito dalla morìa
delle saracinesche nelle città, fenomeno triste e evidente camminando
per le strade di Roma.
Ma essere vittime della crisi (e della
rendita che piuttosto che affittare a prezzi sostenibili preferisce
bastonare il piccolo artigiano) non ha impedito ai commercianti di
fischiare il premier sugli 80 euro, cioè di prendersela con chi ha
stipendi che non arrivano ai 1500 euro al mese. E mentre l’assemblea
rumoreggiava il capo dei commercianti affossava la sbandierata ripresa
«senza slancio, senza intensità, senza mordente».
Questo governo
non ci è mai piaciuto. Le sue riforme economiche (ieri sono scesi in
piazza i metalmeccanici per il contratto nazionale di lavoro) segnano
l’abbandono della difesa dei più deboli consegnati alle logiche del
liberismo. Quelle costituzionali seguono la stessa filosofia con
l’adeguamento del sistema parlamentare alla logica dell’assetto
economico.
Tuttavia lo spettacolo della fuga generale dal leader che barcolla è solo l’altra faccia, un po’ indecorosa, della medaglia.