Corriere Salute 19.6.16
I progressi delle neuroscienze e della psicoterapia oggi offrono diversi approcci alternativi
di D.M.
«Negli
ultimi vent’anni la psicoanalisi classica è molto cambiata, sia per
quanto riguarda l’attenzione verso le acquisizioni delle neuroscienze,
sia per la flessibilità del setting soprattutto nelle terapie
dell’adolescenza». Alessandro Vassalli, membro della Spi, la società
ufficiale degli psicoanalisti di indirizzo freudiano, socio fondatore
dell’Arp (Associazione per la ricerca in psicologia clinica), è uno dei
tanti psicoanalisti che hanno aperto le porte a nuove forme
terapeutiche. «Una volta — prosegue Vassalli — l’analista dopo un paio
di sedute decideva se continuare o meno la psicoterapia. La diagnosi
sarebbe venuta in corso d’opera. Oggi con l’attenzione a nuove
metodiche, compresa quella sistemico-familiare, si parte da un’attenta
valutazione diagnostica, che include la consultazione dei genitori e
anche l’uso dei test, prima vituperati dalla psicoanalisi classica. Il
fatto di essere flessibili non significa però che usiamo gli stessi
metodi della scuola sistemica fondata da Mara Selvini Palazzoli. Più che
sulla collaborazione con tutti i membri della famiglia, noi puntiamo
sull’aiuto dei genitori, fondamentali nella fase iniziale anche nella
ricostruzione della storia clinica del paziente».
Su un’apertura
verso la terapia familiare che non significa identificazione con essa si
orienta anche Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente
della Fondazione Minotauro fondata nel 1984 da Franco Fornari, autore
del saggio “Genitori e psicologo”, pubblicato per la prima volta dalla
Franco Angeli e successivamente dalle edizioni del “Corriere della
Sera”.
«Noi lavoriamo in équipe — spiega Lancini —. Mentre un
collega incontra l’adolescente, un secondo terapeuta parla con la madre e
un terzo con il padre. Alla fine degli incontri, facciamo una
valutazione sintetica e consigliamo ai genitori come comportarsi. Finiti
gli incontri multipli, decidiamo se e come proseguire la terapia
dell’adolescente. È un approccio, questo, basato sulla flessibilità del
setting, che già Franco Fornari aveva messo in luce».
In genere è
difficile che un adolescente voglia andare in terapia. E sono davvero
rari, comunque, i ragazzi che scelgono, una volta avviato il contatto
con lo psicologo, una psicoanalisi classica. «Di solito — dice Vassalli —
si cerca di far durare il meno possibile il trattamento. L’obiettivo è
di attivare le risorse bloccate puntando sugli aspetti che provocano
maggiore sofferenza».
In una prospettiva che limita l’arco
temporale del trattamento da uno a un massimo di tre anni, vengono
proposte nuove metodiche. «Uno degli approcci più validi — dice Vassalli
— è quello strategico, basato su numero di 10-15 sedute. Il caposcuola
di questo indirizzo è Giorgio Nardone di Arezzo: si aggrediscono le
psico-trappole che generano la patologia, gli autoconvincimenti che
alimentano i sintomi».
Come si vede, soprattutto per quanto
riguarda la terapia dell’adolescenza, le scuole più serie puntano alla
flessibilità e al dialogo, non alzano steccati. Vassalli è addirittura
convinto che «tra vent’anni avremo un modello unico prevalente» in cui
le acquisizioni della psicoterapia verranno sempre più messe a confronto
con quelle della neurobiologia. Forse è anche per questa convinzione
che Vassalli è tra gli organizzatori del seminario che si terrà il 25
giugno al Teatro Litta di Milano con Bruce Perry, neuropsichiatra
dell’università di Stanford che mette in relazione psiche e biologia.