Corriere La Lettura 19.6.16
Giambattista Vico
Il poeta del mondo civile
Perché è attuale l’autore della «Scienza nuova» oggi molto più considerato e studiato all’estero che nel nostro Paese
l filosofo napoletano seppe andare oltre la modernità opponendosi all’avvento del dominio tecnologico
E mise al centro della sua visione lo spirito creativo
di Donatella De Cesare
Le
sue opere sono studiate all’università di Atlanta, negli Stati Uniti, e
a quella di Siviglia, in Spagna, all’università di Tel Aviv, in
Israele, e a quella di Buenos Aires, in Argentina. La Scienza nuova è
tradotta in tedesco, francese, inglese, spagnolo, cinese, giapponese,
turco, bulgaro, ebraico. Il genio di Vico è ormai riconosciuto ovunque e
il suo nome è uno dei fari della cultura italiana all’estero. Ma può
succedere di passare tra i pittoreschi edifici di via San Biagio dei
Librai, a Napoli, dove campeggiano gli altarini dedicati al culto di
Maradona, senza alzare gli occhi verso la lapide, ingrigita e
pericolante, in cui è scritto: «In questa cameretta nacque il 23 giugno
1668 Giambattista Vico. Qui dimorò fino ai diciassette anni e nella
sottoposta piccola bottega del padre libraio usò passare le notti nello
studio. Vigilia giovanile della sua opera sublime. La città di Napoli
pose». Come se quella lapide malferma, inaugurata solo nel bicentenario
della nascita, omaggio postumo e tardivo, rappresenti il simbolo del
rapporto ambivalente che l’Italia ha con il suo più grande filosofo.
Un’ambivalenza, sofferta e lacerante, della cultura italiana con se
stessa e con la propria tradizione.
D’altronde, al contrario di
Kant o di Hegel, Vico morì quasi del tutto sconosciuto, dopo aver
faticato anni e anni, come lui stesso racconta nella sua Autobiografia ,
sia per trovare una collocazione accademica, sia per ottenere il
riconoscimento che il suo pensiero meritava. Per intrighi universitari
non ebbe mai la «cattedra primaria mattutina di leggi», cioè di Diritto
romano, e dovette invece accontentarsi di quella di retorica, disperando
«per l’avvenire aver più mai degno luogo nella sua patria». Che dire,
poi, dell’anello che fu costretto a vendere per poter pubblicare la
Scienza nuova ?
Un ebreo di Livorno, Giuseppe Athias, fece
circolare in Europa quell’opera singolare, così vistosamente barocca e
così dichiaratamente ipermoderna, da proiettarsi già oltre la modernità.
Suscitò presto ammirazione l’energia visionaria di quell’eccentrico
antiquario che resisteva alla modernità. Nessuno avrebbe potuto
immaginarselo, se non nella sua Napoli, città intellettualmente
vivacissima; eppure lui era in grado da lì di rivolgere un richiamo al
mondo, per riconsiderare l’umanità e la sua storia.
Foscolo e
Manzoni, Goethe e Marx, Joyce e Beckett furono attratti dal tono
profetico di quel pensatore che si volgeva a indagare le sterminate
antichità del passato per scrutare nel futuro più lontano. Non è un caso
che sia stato il Novecento a fare di Vico un indispensabile
interlocutore filosofico. Merito, certo, della «riscoperta» compiuta da
Croce già nel 1911. Ma la dirompente inattualità di Vico è tale da
attraversare i decenni e giungere al XXI secolo nella pienezza della sua
sfida. L’effervescenza del dibattito odierno, quale si svolge più nel
contesto americano che non in quello europeo, mostra che Vico è per noi
ben più che un precursore.
Perché, dunque, leggiamo le sue opere?
Perché, oggi più che mai, non possiamo fare a meno della Scienza nuova ?
La risposta sta nel progetto eroico di Vico. Straniero persino nella
sua Napoli, dove già molti si erano arresi alle mode, diventando
cartesiani, Vico accetta la marginalità, si situa sulla soglia della
storia, convinto che gli itinerari della memoria siano le vie per
l’avvenire e che il tempo nuovo non possa essere che un futuro del
passato. Traccia per la prima volta una storia dell’umanità; inaugura la
filosofia della storia.
Ma c’è di più. La sua storia del genere
umano, che ne mette in rilievo la humanitas , non è solo il discorso in
cui culmina la tradizione dell’umanesimo italiano, ma è insieme anche un
controdiscorso, un appello, un ricorso contro la modernità. Vico è
l’unico filosofo a intuire l’attacco che le nuove scienze stanno per
sferrare. Il dominio scientifico-tecnologico è ormai alle porte. E dalla
sua ha nomi di spicco, quelli dei fondatori della modernità: Cartesio,
Galileo, Bacone, Hobbes. Anche se in forme diverse, esaltano tutti il
presente, come se la storia iniziasse con loro, celebrano le scienze
empiriche, vedono il mondo solo attraverso il prisma dell’ordine
naturale, considerano anacronistica la sapienza antica, giudicano
inutili le lingue, le lettere, le arti, e aggravano così la crisi
epocale.
Pur sentendosi profondamente solo, Vico non si piega.
Resiste — senza cedere alla nostalgia, né arroccarsi nell’interesse
erudito per il passato. Lì, sulla soglia, dentro e fuori il suo tempo,
dove l’inattualità diventa la prospettiva per denunciare i limiti
dell’epoca moderna, controbatte difendendo la storia, presidiando
l’immaginazione, richiamandosi al linguaggio, anzi alla poesia. Così si
lascia via via alle spalle la metafisica, per raccogliere letteratura e
retorica, religione e diritto, mito e filosofia, tutte le discipline
umane, in un disegno inedito e unitario, capace di superare la
frammentazione, di rispondere alla minaccia delle scienze positive, ma
soprattutto di offrire una nuova visione politica dell’umanità. Tutto
questo è la Scienza nuova .
Contro la boria dei moderni, e la
tracotanza delle scienze, Vico delinea la mappa del «mondo civile».
L’importanza di questa espressione non deve sfuggire; la si incontra —
oggi — sempre più di frequente nei libri in tedesco o in inglese. Anche
perché civile è un termine così profondamente radicato nella tradizione
latina, e poi italiana, da risultare difficilmente traducibile. Che
cos’è, dunque, il «mondo civile», e perché è all’ordine del giorno nel
dibattito filosofico?
In un famoso passo della Scienza nuova Vico
rinvia alla «densa notte di tenebre» che copre la nostra antichità.
Tuttavia un «lume» la rischiara, un «lume» che può dischiudere anche la
via per inoltrarsi in quel tempo remoto. Questo «nostro mondo civile» è
creazione umana, è «stato fatto dagli uomini», così come il «mondo
naturale» è opera di Dio. È bizzarro che i filosofi si ostinino a voler
avere scienza del mondo naturale, piuttosto che volgersi a quello
civile. L’ostinatezza si rivela presto presunzione e boria. Come si può
pretendere di conoscere ciò che non si è capaci di fare? Sono forse gli
uomini in grado di fare alberi e piante, pietre e rocce, astri e
pianeti?
Già in precedenza Vico aveva formulato uno dei principi
della sua filosofia: «Il criterio per avere scienza di una cosa è di
mandarla ad effetto». Solo chi sa come una cosa è nata, chi ne conosce
la genesi e le cause, chi insomma sa farla, ha scienza. Vero e fatto
coincidono — sostiene Vico attribuendo un valore pratico alla conoscenza
e inaugurando una nuova riflessione critica sulla verità. Si può
indagare il mondo della natura, ma lì il vero resta nel complesso
irraggiungibile. Al contrario, il mondo civile, quello che la «scienza
nuova» narra e indaga, è il mondo della storia e delle istituzioni
umane, quello di cui si può avere scienza, perché qui il vero coincide
con il fatto. Comprendiamo quello che altri prima di noi hanno fatto e,
per l’affinità umana che ci lega, potremmo, dunque, rifarlo.
La
«gran selva antica della terra» è stata umanizzata grazie alla parola —
non una parola qualsiasi, ma la parola poetica. Ecco la «discoverta»
che, nonostante tutte le amarezze, costituì per Vico motivo di «eterna,
immensa gioia»: i popoli della «prima gentilità» furono tutti
necessariamente «poeti» che — scrive nel passo forse più celebre della
Scienza nuova — in greco suona come «criatori». Poesia rinvia
etimologicamente a poiesis , creatività, e a poieo che significa «fare».
Prima ancora di Hamann e di Heidegger, la poesia viene indicata da Vico
come la lingua originaria, la prima forma del conoscere,
l’indispensabile attività creativa che articola e istituisce il mondo.
Di qui l’alleanza tra poesia e filosofia. Anzi la poesia è la «chiave
maestra» della Scienza nuova . Dal suo «sublime lavoro» viene emergendo
la civiltà.
Vico non avrebbe potuto essere più radicale. Ma non si
ferma qui. Come nella storia delle parole si rintraccia quella delle
cose, così dal tronco della sapienza poetica si diramano la logica, la
morale, l’economia, la politica. Già gli umanisti — ad esempio Salutati —
avevano scorto il nesso tra poesia e politica. Vico lo consolida e lo
legge filosoficamente. Il «mondo civile» è quello della politeia , del
governo della città, è il mondo — secondo un’etimologia inventata da
Vico — politus , «nettato e mondo». Può corrompersi, e si corrompe,
proprio perché è stato nettato, umanizzato dalla poesia. Non serve
consegnarlo alla costruzione razionale e scientifica. È all’attività
poietica dei cittadini che deve piuttosto essere affidato, pur con tutti
i rischi — che Napoli e le città italiane allora ben mostravano — se
deve essere difesa, custodita, ulteriormente articolata l’umanità.
Sulla
soglia del tempo nuovo ci attende Vico, il pensatore-poeta, per dirci
che l’archivio del futuro sta nei profondi mari della memoria, negli
enigmi della sapienza antica, che la poesia è la via maestra per pensare
la politica.