Corriere La Lettura 19.6.16
I normanni
Perché il Sud non è diventato l’Inghilterra
Entrambe le terre furono conquistate dai Normanni
Croce
pensava che in Gran Bretagna avessero operato meglio. Ma in realtà
erano troppo rozzi per svolgere la stessa funzione civilizzatrice nel
Mezzogiorno d’Italia
di Giuseppe Galasso
Bnedetto
Croce consigliò a Giovanni Laterza nel 1927 di far tradurre in italiano
la Storia d’Inghilterra di Albert Frederick Pollard dell’università di
Londra. Egli non conosceva quel libro, ma ne conosceva l’autore come
dotto e serio studioso. E ciò rende ancora più interessanti le affinità e
spesso identità di vedute fra Croce e Pollard, in specie su qualche
punto, come il periodo normanno in Inghilterra e nel Mezzogiorno.
«Per
quasi due secoli — scrive Pollard — dopo la conquista normanna, non v’è
storia del popolo inglese. V’è, in larga misura, una storia
dell’Inghilterra, ma è la storia di un governo straniero». Un inglese
non poteva vantarsi delle glorie di Guglielmo il Conquistatore e dei
suoi successori normanni e angioini, che erano glorie «non più inglesi
di quanto non sia indù il governo attuale (quello coloniale inglese,
allora, ndr ) dell’India». I nomi inglesi erano per un paio di secoli
scomparsi dalla storia d’Inghilterra: «Dalle liste dei sovrani, dei
ministri, dei vescovi, conti e sceriffi», sostituiti «da nomi che
cominciano con “fitz” e sono distinti da un “de”». Perfino «la lingua
inglese rimase sotterrata e divenne parlata incolta di contadini», e
«non vi era interesse per l’anglosassone da parte di un’aristocrazia che
scriveva latino e parlava francese».
Le simpatie di Pollard
vanno, invece, tutte al periodo pre-normanno, al lungo e faticoso
processo per cui Juti, Angli e Sassoni, dopo aver invaso la Britannia
romana nel V secolo, avevano costituito una realtà storica instabile e
mal delineata, ma tale da potersi dire, per lui, che «quanto di grande e
di buono v’è in Inghilterra sia d’origine anglo-sassone».
Non
diverso è il giudizio di Croce sul periodo normanno nel Mezzogiorno, e
come Pollard al seguente periodo inglese angioino, così Croce lo estende
al seguente periodo meridionale svevo. «Non sembra lecito — egli scrive
— identificare la storia della monarchia normanno-sveva con la storia
dell’Italia meridionale», poiché «essa fu rappresentata sulla nostra
terra e non generata dalle sue viscere» e «la nostra storia non può
esser quella a cui abbiamo offerto il teatro, ma l’altra, grande o
piccola che fosse, che si svolse nella nostra coscienza e nei nostri
travagli, nelle nostre menti e nei nostri cuori, opera della nostra
volontà». E che «alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il
carattere indigeno e nazionale», si vede per Croce anche dal fatto che
«i Normanni misero fine alla libertà delle città marinare e delle altre
città, specialmente pugliesi», mentre «i re svevi, per la linea politica
che seguivano e per l’esperienza dell’indomabilità dei comuni
settentrionali, repressero con severissimo rigore ogni accenno di
formazione comunale».
Come Pollard agli Anglo-Sassoni, così Croce
riserva tutte le sue simpatie al Mezzogiorno pre-normanno, di cui parla
con commozione e con grato ricordo dei suoi «nuclei nazionali» presso i
Longobardi o ad Amalfi, a Napoli, nelle città pugliesi: una storia più
modesta, ma più propria, di cui i meridionali possono legittimamente
vantarsi, laddove a torto si gloriano delle imprese di Roberto il
Guiscardo o di Ruggero II d’Altavilla o di Federico II di Svevia,
protagonisti, gloriosi bensì, ma di un’altra storia: la storia delle
loro dinastie e delle genti a cui appartenevano.
La corrispondenza
tra le tesi di Pollard e quelle di Croce è, dunque, evidente. Quanto
alla loro accettabilità, l’asserita mancanza di storia propria di un
popolo in qualsiasi periodo non può essere postulata in principio, e,
comunque, non si riscontra nella storia meridionale tra XI e XIII
secolo.
Si trattava, in effetti, di giudizi non nuovi per
l’Inghilterra. Per il giudizio crociano le cose sono più complesse. A
prescindere comunque da analogie e diversità, Croce stesso confrontava
comunque direttamente la storia normanna d’Inghilterra e quella del
Mezzogiorno. «È stato almanaccato — scrive — più volte sul problema del
come mai il regno di Ruggiero e quello di Guglielmo il Conquistatore,
fondati da uomini della stessa razza, ordinati allo stesso modo,
tenessero così diverso cammino e avessero così diversa fortuna,
splendida questo e misera l’altro: ma la ragione è evidente, perché in
Inghilterra i baroni adottarono presto fini generali e difesero
interessi di tutta la loro classe e poi di tutto il popolo e questo
chiamarono alleato nell’opera di mantenere bensì un potere regio, di cui
sentivano la necessità, ma di piegarlo e foggiarlo a uso della
nazione». Perciò, nonostante le diversità etniche «e il contrasto di
conquistatori e conquistati, si formò sin da allora una nazione inglese.
Nella monarchia normanno-sveva non accadde lo stesso: un popolo, una
nazione non nacque, non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie
popolazioni si riconoscessero come subietto: siciliani, pugliesi,
longobardi, napoletani erano tutti nomi parziali; popolani e borghesi
non fecero pesare la loro propria volontà, e i feudatari solo in maniera
individualistica e contraria allo Stato... Baroni e borghesi rimasero
come estranei alla politica dei loro sovrani; e non furono a fianco di
Federico e di Manfredi nella lotta contro i pontefici, come la Francia
fu poi a fianco di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII. Invano tra i
baroni meridionali si cercherebbero figure che avessero qualche tratto
della religiosità, dell’austerità, del sentimento d’onore che si notano
in un Simone di Montfort, e che spiegano la fecondità delle agitazioni e
ribellioni da costui guidate, e ne fanno il martire di una causa
nazionale. E dov’è poi, nella agitata e folgorante storia della
monarchia normanno-sveva, qualche traccia di epica, di quell’epica che
accompagna la coscienza del sorgere di un popolo?».
Sulla
coscienza e sull’azione nazionale del baronaggio inglese per lunghi
secoli è difficile che gli inglesi e i loro sovrani di quei secoli
avrebbero potuto concordare col giudizio crociano. Quale motivo può,
peraltro, aver indotto Croce all’accettazione così decisa di una tesi,
sulla quale difficilmente potrebbe convenire anche l’attuale
storiografia inglese, che si è sforzata di uscire del tutto fuori dal
dilemma del carattere nazionale o non nazionale del periodo normanno?
Per
l’aspetto della conquista la storia inglese e la storia meridionale di
quel periodo presentano certo notevoli affinità. Così è soprattutto per
il rapporto tra momento militare e della violenza e momento politico e
della mediazione nell’organizzazione dei nuovi domini normanni. Anche le
differenze sono, tuttavia, evidenti. Basti pensare che Guglielmo I si
impadronì dell’Inghilterra con un paio di battaglie campali e con un
paio d’anni di campagne militari distruttive in alcune regioni.
Nell’Italia meridionale e in Sicilia occorsero, invece, decenni di
azioni politiche e militari perché il dominio normanno vi si stabilisse.
Soprattutto,
poi, ogni confronto fra i due casi sottostà alla difficoltà
insuperabile delle profonde differenze di struttura storica dei due
Paesi. Da una parte, il Mezzogiorno pluriculturale e pluriconfessionale,
legato alle due aree più fiorenti del mondo medievale, quando l’Europa
ancora appariva barbara e infedele, la bizantina e la musulmana, con un
frazionamento politico per cui vi si distinguevano varie zone politiche
rivali, ma anche in stretto contatto fra loro; tutte partecipi di
commerci di ampio raggio; con una forte presenza di fenomeni cittadini
importanti (e, in qualche caso, Palermo, di grande rilievo). In un tale
paese poco avevano i Normanni da insegnare e molto da apprendere, come,
infatti, avvenne. È stato detto da tempo che la loro «bella monarchia»
assimilò e utilizzò i criteri dell’amministrazione bizantina e
musulmana. Il geografo del re Ruggero era un musulmano, Edrisi. I
mosaici di Monreale e di altri luoghi celebri della Sicilia normanna
sono di scuola bizantina e portano iscrizioni in greco, oltre che in
latino. E si potrebbe proseguire con questa interazione mediterranea di
cui si fa ancora grande merito al nipote di Ruggero II, Federico II.
Dall’altra
parte, una Inghilterra anglosassone in condizioni materiali, culturali e
religiose del tutto diverse. Qui erano i Normanni a poter giocare il
ruolo di una aristocrazia colta e raffinata, espressione di quella
grande Francia che dal Mille fino a tutto il secolo XIII fu al centro
della vita, innanzitutto culturale, dell’Europa di allora. Poco o nulla,
rispetto a Sicilia e Mezzogiorno, il precedente mondo anglo-sassone
aveva da offrire ai conquistatori.
Tutto sommato, il punto di
maggiore contatto fra le due esperienze rimane l’introduzione normanna
del feudalesimo in entrambi i Paesi (e non è un caso che ne siano
rimasti in entrambi due documenti fra i più importanti della storia
europea di allora, il Catalogus baronum in Italia e il Domesday Book in
Inghilterra, che danno l’impressione di una maglia feudale più stretta e
di un controllo regio più forte in Inghilterra).
Le differenze,
quindi, tra la Normandia inglese e quella italiana abbondano. La
differenza prospettata da Croce — in Inghilterra subito una nazione
anglonormanna, in Italia una dominazione dinastica — è, tuttavia,
davvero discutibile. Ed è da presumere perciò che Croce, il quale non
poteva non esserne in qualche modo consapevole, l’abbia espressa in modo
tanto drastico anche perché così egli avrebbe dato maggiore evidenza e
icasticità al suo giudizio sulla storia normanno-sveva nel Mezzogiorno
d’Italia (senza contare che vi può essere entrata anche una sua certa
visione idealizzata della storia inglese nel suo complesso).
Croce
non affermò, comunque, mai che da quell’inizio non «nazionale» della
monarchia meridionale dipendesse tutta la storia successiva del
Mezzogiorno, come spesso si è affermato e si afferma. Da grande storico
qual era, sapeva che nessuna storia è scritta una volta per sempre, e
che ogni generazione, ogni epoca ha i suoi particolari problemi e le
relative responsabilità.