Corriere La Lettura 12.6.16
Schiavitù, guerre, attacchi chimici
Quanto sono razziste le formiche
di Telmo Pievani
Charles
Darwin lottò per tutta la vita contro la schiavitù. Era la sua «sacra
causa», come la definì. Nelle corrispondenze private tornava spesso
sulle crudeltà perpetrate dagli schiavisti e sui governi corrotti che le
tolleravano. Si scagliava contro chi giustificava simili brutalità
invocando l’origine distinta e gerarchica delle «razze» umane. Partecipò
di tasca propria alle campagne di sensibilizzazione — insieme alle
agguerrite sorelle e alle cugine Wedgwood — affinché la Gran Bretagna
prima e gli Stati Uniti d’America poi abolissero la tratta degli schiavi
proclamando l’uguaglianza e la libertà di tutti gli esseri umani. In
fatto di schiavitù, il mite Darwin era pronto a prendersela persino con i
suoi maestri, come Charles Lyell, o con gli amici più fidati come
Joseph Hooker e Thomas H. Huxley, che erano assai più timidi di lui
sull’argomento.
Possiamo immaginare allora il suo stupore quando
uno degli avversari più tenaci della teoria evoluzionistica, il vescovo
di Oxford Samuel Wilberforce, anch’egli antischiavista ma per tutt’altre
ragioni, lo accusò di tradire la causa umanitaria perché aveva
descritto lo schiavismo come un prodigioso fenomeno naturale,
precisamente tra le formiche. Nel capitolo ottavo dell’ Origine delle
specie , quello sugli istinti, il naturalista inglese descrisse i suoi
esperimenti sulla Formica sanguinea , diffusa nell’Inghilterra
meridionale, che schiavizza le formiche nere e altre specie cugine, ma
divide con loro i compiti di mantenimento della comunità (è una
schiavista «facoltativa»), mentre la Polyergus rufescens è diventata
completamente dipendente dai suoi schiavi e sa fare soltanto la guerra.
Attenzione però a non cadere in giustificazioni biologiche di
comportamenti umani, precisò Darwin: le formiche schiaviste e le
formiche obbedienti si comportano in questo modo perché seguono un
invincibile istinto «odioso e straordinario» (sviluppatosi per selezione
naturale a partire forse dall’occasionale immagazzinamento di pupe di
altre specie di formica come cibo), mentre gli esseri umani privano i
loro simili della libertà per una scellerata abitudine culturale di cui
sono pienamente responsabili.
Come ha spiegato in pagine
altrettanto magistrali e in tempi più recenti il grande mirmecologo di
Harvard Edward O. Wilson, l’istituzione della schiavitù non è
un’esclusiva della specie umana. Almeno cinquanta specie di formiche la
praticano, nei modi più diversi. Talvolta la regina schiavista uccide la
regina di un formicaio vicino e ne arruola le operaie. In altri casi,
le guerriere partono in colonne ben ordinate, assaltano il formicaio
nemico, ne sbaragliano le difese, fanno fuggire la regina locale,
caricano i bozzoli contenenti le pupe delle future operaie e le portano
nel loro formicaio. Il ratto delle operaie può avvenire anche tramite
attacco chimico, con l’emissione di «allomoni di propaganda» (cioè
sostanze chimiche il cui rilascio avvantaggia chi le emette e crea danno
al ricevente), che seminano il panico nel formicaio da depredare. Le
operaie rapite, pur nate in terra ostile, riconoscono come proprio
l’odore della nuova comunità di appartenenza e iniziano a lavorare
offrendo servigi alle loro carceriere.
Questo sofisticato
comportamento è emerso più volte nel corso dell’evoluzione delle
formiche, in linee di discendenza distinte. In alcune situazioni estreme
(per esempio nelle formiche amazzoni europee del genere Polyergus
oppure nella Protomognathus americanus degli Stati Uniti orientali), la
formica schiavista «obbligata» si affida a tal punto alle sue schiave da
divenire pressoché inetta: sa combattere all’occorrenza e poco altro,
tutto il resto lo fanno le schiave. Le operaie rapite puliscono il nido,
lo difendono dagli aggressori, curano le pupe, trovano il cibo,
conducono gli spostamenti, provvedono insomma a tutto. Senza le schiave
(rimosse per esempio dagli sperimentatori), le padrone non riescono a
gestire i lavori di casa, languiscono e poi muoiono di fame. A questo
punto, chi è il servo e chi il padrone? Inoltre, essendo le schiave
operaie sterili, le padrone devono rifornirsi periodicamente facendo
razzie nei formicai delle specie schiavizzate, che spesso sono loro
parenti strette.
Queste descrizioni sono piene di antropomorfismo.
La formica non sa di essere «schiavista» e non ci sta impartendo alcuna
lezione etica: semplicemente applica una forma di parassitismo sociale a
scapito di un’altra specie. È come se una specie addomesticasse le
operaie di un’altra specie, solo che a differenza degli animali
addomesticati le formiche schiave non si riproducono e fanno tutti i
lavori che le loro padrone hanno disimparato a fare. Il fenomeno è più
frequente nei climi temperati e freddi. Secondo Wilson, questo
comportamento potrebbe essersi evoluto a partire da raid finalizzati
soltanto a divorare le pupe di altre specie (una pupa portata al nido
per essere mangiata si schiude e si rivela molto più utile come schiava
che come cibo), ma anche come difesa del territorio: se si allevano
colonie in spazi angusti, il fenomeno dello schiavismo emerge più
frequentemente a partire dai conflitti tra i diversi gruppi. Lo
schiavismo delle formiche differisce però per un aspetto da quello
emerso nelle società umane: in natura avviene più spesso a scapito di
individui di un’altra specie che non all’interno della stessa specie.
Qui
si profila un enigma evoluzionistico. Se in natura tutti cercano di
difendere i propri interessi darwiniani (sopravvivere e riprodursi),
perché alcune specie accettano di farsi schiavizzare senza averne alcun
ritorno apparente? Lo stesso interrogativo si pone in alcuni casi di
parassitismo, per esempio tra le vespe, in cui una specie sfrutta
selvaggiamente il nido di un’altra, senza che quest’ultima ne tragga
alcun vantaggio. Si tratta probabilmente di una fase instabile nella
lunga coevoluzione tra due specie (anche definita «corsa agli
armamenti») in cui uno dei due contendenti si trova in posizione di
debolezza.
Che sia una situazione instabile si nota dal fatto che
le formiche schiaviste non hanno più successo di quelle non schiaviste: è
un’evoluzione comportamentale possibile, fissatasi come adattamento
genetico in alcune specie. A ulteriore riprova, secondo alcuni studi
recenti nel mondo delle formiche talvolta emerge per contrapposizione un
istinto alla ribellione. Le schiave, benché non possano a loro volta
riprodursi, iniziano a distruggere le uova delle loro padrone, a volte
con l’aiuto delle consorelle rimaste libere nei paraggi. Decimano da un
terzo alla metà della popolazione delle schiaviste, prima di essere di
solito riportate sotto controllo. La natura è amorale, anche se a noi
piace umanizzarla.