Corriere 9.6.16
L’addio alle armi azzoppa la politica
L’Europa oggi rifiuta la guerra come immorale e non riesce neanche a concepire di avere nemici
Ma non è affatto detto che possa permetterselo
di Ernesto Galli della Loggia
Le
guerre del Novecento hanno sconvolto e mutato realtà e immagini
dell’Europa che duravano da secoli, a cominciare dalla coscienza che
essa aveva di sé. Un mutamento di cui solo ora cominciamo a renderci
pienamente conto percependolo nei suoi precisi contorni.
Che cosa
lo ha provocato? Ha avuto un ruolo centrale innanzi tutto quella che si
può definire una vera e propria vanificazione dello scopo classico della
guerra. È accaduto infatti che dalle due gigantesche guerre che hanno
visto protagonisti nel secolo scorso quasi tutti i Paesi europei alcuni
di questi siano usciti indubbiamente sconfitti, ma nessuno realmente
vincitore. Certo, alcuni hanno prevalso su altri, ma per i modi in cui
ciò è avvenuto anche i Paesi vincitori sono andati incontro in un giro
più o meno breve di anni a una drammatica perdita di rango
internazionale, a un evidente complessivo declino. Non da ultimo per la
buona ragione che sia nel 1918 che nel 1945 i veri vincitori — gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica — stavano fuori dall’area europea in senso
proprio. Nel nostro continente, dunque, la guerra non ha conseguito
quello che invece è sempre stato il suo principale risultato, o
perlomeno il principale risultato addotto tra i suoi motivi, cioè
l’accrescimento della potenza e del dominio a vantaggio del vincitore.
(...)
Per comprendere quale esito abbia avuto nel Novecento il
rapporto tra la coscienza europea e la guerra — nella cui luce tuttora
viviamo — è necessario sottolineare una peculiarità della situazione
dell’Europa nella seconda metà del secolo. E cioè la coincidenza
verificatasi dopo il 1945 di due aspetti: da una parte la complessiva
sconfitta militare del continente, destinata ad apparire ben presto
nella sua autentica natura di una catastrofe geopolitica di portata
storica, e di cui ho già detto; e dall’altra l’affermazione dappertutto
nello stesso continente, a più o meno breve scadenza, di regimi politici
democratici.
La vicenda europea ha visto insomma un’inquietante
sovrapposizione: sconfitta militare e democrazia hanno coinciso, l’una è
stata causa dell’altra. Difficile credere che si sia trattato di una
coincidenza. Il fatto è che in grandissima parte l’Europa — le cui
classi dirigenti nell’estate del 1940 si erano tutte più o meno
acconciate al dominio nazista — non è certo diventata democratica per
sua scelta. Ma proprio perché figlia di una rovinosa sconfitta militare,
la scelta dell’Europa per la democrazia, a differenza di quella
americana, non sa né può sapere che cosa sia la potenza . Quasi per un
oscuro senso di colpa legato al suo passato, nel quale la potenza ha
finito per essere il più delle volte l’insegna dell’antidemocrazia,
l’Europa si è indotta a considerare l’idea democratica incompatibile con
la potenza. Rispetto a tale dimensione — così intrinseca a quella
dell’impiego della forza, e dunque della guerra, e dunque, aggiungo,
della politica estera — l’Europa dei parlamenti, dei giornali, della
cultura, delle opinioni pubbliche, delle maggioranze, manifesta in ogni
occasione una profonda estraneità, pronta a trasformarsi in ostilità.
Difficile credere che ciò accada solo per ragioni nobili. Viene
piuttosto il sospetto che dal momento che gli Stati europei non hanno
più la possibilità di fare la guerra, e dunque di avere una vera
politica estera, l’Europa agiti le ragioni etiche della pace per cercare
di far sì che neppure altri possa fare la guerra e avere una politica
estera.
Dopo aver rigettato da sé la dimensione della potenza per
causa di forza maggiore e averla rifiutata ideologicamente, l’Europa non
può che fare del pacifismo e del cosmopolitismo gli assi della propria
modernità politica. Ogni scostamento da quella nobile coppia tende a
essere percepito dai maestri dell’odierna coscienza europea come
l’inizio di un precipitare dal cielo della morale nel baratro
dell’irrazionalità, verso i bui abissi delle passioni primitive e delle
identità particolari, come un inquietante ritorno al passato.
Ma
non si tratta solo della fine della «potenza». L’Europa non sembra
accorgersi, infatti, che la fine della guerra sporge minacciosamente
sulla crisi/fine della politica in generale. Oggi come non mai infatti —
oggi quando nella nostra società, dopo decenni di democrazia e di
riformismo, non ci è più consentito di leggere le categorie del
«politico» nei termini della guerra — dobbiamo pur prendere atto che il
venir meno del monopolio statale della violenza e della guerra da un
lato, e dall’altro l’affievolirsi della centralità e del potere della
politica, appaiono due elementi indissolubilmente legati. Legati non da
ultimo in quel momento decisivo della dimensione politico-statale che è
la sovranità . Non è un caso che chiamare i cittadini alle armi e da
parte di questi ultimi accettare di andare in guerra, di combattere,
costituisca da sempre il momento supremo per un verso delle attribuzioni
dello Stato sovrano e per l’altro dell’obbligazione politica.
L’attuale
estraneità/ostilità alla guerra in nome di motivazioni etiche (la
guerra è qualcosa di immorale, inaccettabile per chiunque voglia stare
dalla parte del bene), è anche il sintomo e insieme una delle cause non
ultime di una novità decisiva dell’attuale panorama culturale del
continente: il crescente, generale, distacco dal passato. Un distacco
che ha un suo snodo cruciale nell’applicazione al passato stesso, cioè
in buona sostanza alla storia, di un giudizio di tipo morale,
precisamente sull’esempio di quanto siamo soliti fare per tanta parte
della vicenda del Novecento. Ma alla fine la conseguenza non può che
essere, come difatti è, una sola: vale a dire una vera e propria
destoricizzazione del passato. E quindi la sua consegna a una
sostanziale irrilevanza. (...)
A partire dalla Grande guerra
ridotta a «inutile strage» e con la spinta certo non indifferente della
singolare richiesta di perdono avanzata dal Pontefice romano alla
vigilia del terzo millennio, in realtà è tutto il passato europeo che è
stato sottoposto a uno scrutinio morale, dal quale almeno nell’opinione
comune ben poco sembra salvarsi. Il Cristianesimo e la Chiesa cattolica
con la loro presunta sessuofobia e le numerose malefatte loro
attribuite, dalle Crociate all’Inquisizione, e poi le guerre di
religione con la loro esplosione di intolleranza, la distruzione delle
culture extraeuropee, e ancora lo schiavismo, il colonialismo,
l’eurocentrismo, il classismo e il fariseismo borghesi, per finire, va
da sé, con il capitalismo, i totalitarismi, la Shoah: è più o meno con
queste fattezze che il passato del continente è rappresentato dalla
vulgata corrente, ed è così che esso appare al diciottenne europeo che
termina il corso dei suoi studi.
Merita a questo proposito di
osservare, aprendo una parentesi, che precisamente questo sostanziale
rifiuto della dimensione storica ha a sua volta prodotto un po’
dappertutto la riduzione a poca cosa — o addirittura la virtuale
espulsione — dell’insegnamento della storia, della dimensione storica in
generale, dal curriculum degli studi. Cioè da quello snodo essenziale
della trasmissione culturale che è l’istruzione. La storia, un tempo
cardine della formazione delle élite europee, è stata rimpiazzata
dall’economia, dagli studi di management, nel caso migliore dalle
discipline giuridiche. Ma è solo un caso, mi domando, se ciò che ne
risulta nella vita pubblica europea è l’ormai abituale appiattimento e
semplificazione di prospettive, il restringersi di ogni cosa alla
routine, alla normale amministrazione, la conseguente difficoltà di
pensare, e ancor di più affrontare, le rotture repentine, le crisi?
In
verità, la coscienza europea, incapace di metabolizzare il trauma
dall’esperienza bellica novecentesca, si è necessariamente condannata
anche al distacco dalla sostanza drammaticamente realistica della
politica: e anche per questa via al distacco, alla fine, dalla politica
stessa. Si è condannata a non sapere più che cosa sia la politica. Per
secoli infatti la politica ha appreso dalla storia — la quale per tanta
parte è proprio storia di contrapposizioni, di scontri e di guerre — la
complessità dei fattori in campo e il possibile variare delle loro
posizioni, la consapevolezza della specificità di ogni accadimento e
l’importanza di valutare i rischi, l’esigenza della cautela, ma insieme
anche il senso vivo del carattere cruciale degli interessi, delle poste
in gioco irrinunciabili.
A lungo altresì, attraverso la conoscenza
di un passato scandito inesorabilmente dalla guerra, dal dare e
ricevere la morte, la storia è servita a impartire alla politica, con la
consapevolezza della tragicità sempre incombente del reale, una lezione
di alto pessimismo morale: la sola capace di tenere la politica stessa
lontana dalle lusinghe del potere e dalla frenesia della hybris .
Fatto
sta che dopo il fortissimo affievolimento del nesso fra la storia e la
politica in relazione al rifiuto radicale della dimensione della guerra,
l’Europa non riesce più a credere che per lei possano esistere nemici.
Ovvero — per dirla in un’altra maniera — dà troppe volte l’impressione
che per lei non esistano più cose per difendere le quali meriti di avere
dei nemici. La categoria del «nemico», così consustanziale alla
dimensione del «politico», sembra insomma essersi dileguata anch’essa,
risucchiata dalla più vasta scomparsa della storia. Sempre sperando,
naturalmente, che questa medesima storia non si diverta a preparare
qualche futura, beffarda smentita. (...)
È tempo di concludere, e
vorrei farlo con un’ultima considerazione generale che contiene una
domanda. La democrazia si è identificata in Europa con la situazione
sociale definita dal declino apparentemente irreparabile della politica e
della statualità, dal prevalere di una mentalità centrata in misura
straripante sulla soggettività e sulle pulsioni che ad essa provengono
da un contesto poverissimo di valori «alti», permissivo, opulento, in
grado di concepire la dimensione collettiva solo nei limiti della
convenienza. Da un punto di vista più strettamente e tradizionalmente
storico-politico si potrebbe poi dire che in complesso l’esperienza
europea della democrazia — a differenza per antonomasia di quella degli
Stati Uniti — si è tutta svolta in assenza, e anzi rifiutando, la
dimensione della «potenza».
Ma lo ha fatto, o se si vuole ha
potuto farlo, perché nel caso dell’Europa continentale la vittoria della
democrazia, essendo stata per così dire regalata o in certo senso
imposta all’Europa stessa dall’evento negativo della sua complessiva
sconfitta nella Seconda guerra mondiale, da allora e per molti decenni è
vissuta protetta dalla «potenza» degli Stati Uniti. La democrazia
europea, insomma, non è fiorita nel vuoto o contando sulle sue forze: al
di là dell’Atlantico c’era chi in qualche modo vegliava su di lei.
Per
mille ragioni questa situazione sembra però ormai volgere alla fine,
forse è già finita. Mille motivi — tra cui quello molto reale della
comparsa di imprevedibili e feroci nemici ai suoi confini — indicano che
forse per la democrazia europea sta giungendo l’ora di un appuntamento
fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano
indicare che possa riacquistare tutta la sua antica crucialità la
categoria tanto a lungo esorcizzata della guerra. La domanda
naturalmente senza risposta è se, una volta giunti a quell’appuntamento,
sapremo e potremo essere comunque all’altezza dell’ora restando padroni
del nostro futuro. O se invece i fatti decideranno per noi, ma prodotti
da altre volontà che non saranno le nostre .