mercoledì 8 giugno 2016

Corriere 8.6.16
Hillary entra nella storia ma la popolarità è bassa
di Massimo Gaggi

Poteva essere un trionfo, invece è una vittoria dimezzata. Hillary Clinton è la prima donna nei 240 anni della storia politica americana a conquistare la «nomination» per la Casa Bianca, 8 anni dopo la bruciante sconfitta subita da un senatore esordiente. Era il 7 giugno del 2008 quando lei gettò la spugna concedendo la vittoria delle primarie a Barack Obama: «Non abbiamo infranto ancora il tetto di vetro che ci frena, ma grazie ai vostri voti adesso quel soffitto ha 18 milioni di crepe». Ora, stando ai calcoli della Ap che le ha attribuito i 2.383 delegati necessari per sfidare Donald Trump anche prima del risultato della California e degli altri 5 Stati che hanno votato stanotte, quella barriera è andata finalmente in frantumi. Evento storico, una grande rivincita. Ma il clima è cupo: la Clinton prevale in un fronte democratico mai così diviso.
Un quarto di secolo vissuto da protagonista sulla scena politica — «first lady», senatrice, segretario di Stato — pesa molto più del previsto sulla sua immagine: alcuni errori che erano sembrati peccati veniali sono diventati, invece, macigni impastati di arroganza del potere sulla strada della presidenza. L’asprezza della campagna di Bernie Sanders le ha fatto perdere il sostegno dei giovani. I maschi bianchi voteranno in maggioranza per il miliardario repubblicano, mentre la Clinton può contare sul sostegno delle minoranze nere e ispaniche. Divise anche le donne e perfino le femministe. Alcune celebrano l’evento storico ma altre, come Camille Paglia, trattano Hillary da «infiltrata»: prodotto della cultura maschilista, arrivata sulle soglie della Casa Bianca sgomitando e grazie al marito Bill.
Si spiega così il paradosso di un personaggio che, secondo i sondaggi Gallup, è stato per 20 anni consecutivi la donna più ammirata d’America ma oggi appare il candidato più divisivo tra quelli presentati dai democratici a un’elezione presidenziale. E resta l’ombra di una possibile incriminazione per il caso delle sue email ministeriali.
C’è chi pensa che le cose potrebbero cambiare in meglio per lei se oggi, finite le primarie, Sanders smettesse di attaccare e desse il suo «endorsement» alla Clinton. Lei fece così otto anni fa con Obama, ma è difficile che un candidato radicale che l’ha criminalizzata per tutta la campagna elettorale e che ancora ieri parlava di una «convention» contestata, ripercorra quel copione.
E anche se lo facesse dando un contrordine ai suoi «supporter» (domenica Obama ha chiamato Sanders e l’ha tenuto al telefono mezz’ora cercando di convincerlo che è ora di fare un passo indietro per evitare che una Clinton logorata venga sconfitta da Trump) è assai improbabile che i ragazzi che hanno urlato per mesi «Bernie o il disastro» e che hanno tirato mazzi di banconote false contro l’auto della candidata accusata di pensare più agli affari che alla politica, l’8 novembre vadano a votare per lei.
Le uniche buone notizie per i democratici vengono da un fronte repubblicano ancor più devastato, in balia di un candidato totalmente incontrollabile. A una capacità diabolica di demolire con la sua dialettica gli avversari, Trump unisce anche quella di fare a pezzi l’ideologia del partito conservatore e le sue stesse fondamenta come ha fatto lunedì con un discorso dalle venature razziste col quale ha messo i dubbio l’attendibilità delle sentenze dei giudici di origine ispanica. Inaccettabile, hanno gridato all’unisono i leader repubblicani, ma nessuno, per ora, sconfessa il candidato.