Corriere 8.6.16
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti
Nel
1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé , inventa una
storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare,
stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del
fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può,
leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne
accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da
rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa
per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario
che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette
incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi. Mentre
il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato
l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di
ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui
mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da
donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi
da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata
fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così
Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si
fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide
mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith
Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché
quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più
antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in
grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne
(Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle
origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali
abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» — le donne sembrano
assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi
maschi — «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e
irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri
della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti,
persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill:
un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella
presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza
in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione
politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata
dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle
donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al
contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria»,
scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del
pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a
infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole
in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono
le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di
autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il
femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità,
resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio
quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente
dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati
ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino». La via d’uscita
proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana,
al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel
suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo
fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una
questione degna di nota. Oggi invece lo è».