Corriere 7.6.16
La partita del premier (per avere una sponda) pensando al referendum
di Francesco Verderami
Non
è stato l’onore delle armi. La mano che ieri Renzi ha teso al Cavaliere
è parsa piuttosto nostalgia (e desiderio) del vecchio patto del
Nazareno. D’altronde, se nel momento più difficile di una storia
ventennale, il presidente del Consiglio tiene a sottolineare che in
Italia «c’è ancora la destra e c’è sempre Berlusconi», è perché — nel
momento più difficile della sua storia biennale — proprio il presidente
del Consiglio ha bisogno di trovare una sponda per spezzare
l’accerchiamento di chi mira a sconfiggerlo al referendum. Così ritorna
dove tutto era cominciato, in vista dei ballottaggi che spiegheranno se
c’è un nesso tra le Amministrative e la futura consultazione popolare,
cioè se il voto per le Comunali avrà un’incidenza sulla politica
nazionale.
Non era dall’esito del primo turno che lo si poteva
capire, sarà nel secondo turno che si vedrà se il variegato fronte anti
renziano sarà capace di compattare i propri voti a Roma, a Milano, a
Torino, per sconfiggere ora i candidati democratici e in ottobre il
leader dei Democratici. La tesi di Renzi che «molti elettori» dei
Cinquestelle, di Forza Italia e della Lega si esprimeranno a favore
delle riforme costituzionali, si poggia sull’assunto che «la maggioranza
dei cittadini» vogliono la riduzione del numero dei parlamentari e una
semplificazione dell’iter legislativo. E dunque faranno «zapping» nelle
urne.
In questo modo il premier mira a strappare la bandiera e le
parole d’ordine dell’antipolitica per affermare se stesso e il primato
della politica, inchiodando i suoi avversari al ruolo dei difensori
della «casta» e dello status quo. Ma l’idea del plebiscito che Renzi ha
suscitato nel Paese ha finito per piantarsi come un seme
nell’immaginario collettivo e ha messo radici al di là della sua
volontà. L’obiettivo iniziale era attirare l’attenzione degli elettori
su un tema che non suscita emozioni, trasformando un confronto
cattedratico sul modello istituzionale in un duello politico personale.
Non
si è fermato al «se perdo vado a casa», ha voluto fare gioco sugli
istinti dei suoi oppositori, aggiungendo che andare a votare sarebbe
stato «un incentivo per tanti a votarmi contro». C’era una strategia
dietro questa provocazione, che gli serviva per motivare il fronte a lui
favorevole e mobilitarlo in vista delle urne: un’esigenza dettata dai
numeri, siccome gli analisti ritengono che solo superando la soglia del
65% dei votanti il Sì avrà la meglio sul No. E infatti ora Renzi sta
tentando di cambiare i toni, «non ce la faccio a vincere da solo questa
sfida», ha detto davanti ai dirigenti della Coldiretti strappando il
loro applauso.
Ma il seme ha messo radici, e la congiuntura non
sembra favorevole al premier. Il suo rischio è aver esaurito la carica
innovativa del rottamatore senza aver avuto ancora il tempo (o la
possibilità) di guadagnarsi il profilo del buon governatore: e nel gioco
dei consensi, perdere i primi senza aver consolidato i secondi rende
tutto più complesso. Ecco la necessità di allargare il blocco dei
riformatori, o meglio di ripristinare quell’area che consentì lo
start-up del processo costituente: «La destra c’è sempre e c’è ancora
Berlusconi». Di più: c’è un pezzo di classe dirigente della destra — del
centrodestra — che è pronta a manifestarsi a favore del Sì, al momento
opportuno.
È a loro, oltre che al Cavaliere, che Renzi pare
rivolgersi. Senonché nella sfida referendaria è diventato centrale il
tema della legge elettorale, con quel premio di maggioranza alla lista
che è vissuto con ostilità e che fu pensato dopo le Europee, quando il
Pd sfondò il tetto del 40%. Non è chiaro se il risultato delle
Amministrative farà cambiare verso al premier, se — come uno yogurt —
quel meccanismo dell’Italicum andrà in scadenza. Per ora il leader del
Pd difende la legge, una linea Maginot dietro la quale si terrà
quantomeno fino al referendum, per non manifestare segni di debolezza.
Ma
già ieri quel muro mostrava delle crepe, perché quando Renzi ha citato
il voto di Torino, «dove Fassino ha superato il 41%», ha dimenticato che
lì il Pd si è fermato sotto la quota del 30% e che quel risultato è la
somma dell’intera coalizione. Ecco: il premio alla coalizione è ciò che
gli chiedono quanti sono pronti a sostenerlo al referendum, è la
richiesta che fa anche Berlusconi, è un modo per far breccia al Sud dove
il premier teme per ottobre. Perché al Sud i detentori dei «pacchetti
di voti» di ogni partito, anche del Pd, sono pronti a danzare insieme a
Renzi. Ma vogliono continuare a credersi «il sale della terra».