martedì 7 giugno 2016

Corriere 7.6.16
La partita del premier (per avere una sponda) pensando al referendum
di Francesco Verderami

Non è stato l’onore delle armi. La mano che ieri Renzi ha teso al Cavaliere è parsa piuttosto nostalgia (e desiderio) del vecchio patto del Nazareno. D’altronde, se nel momento più difficile di una storia ventennale, il presidente del Consiglio tiene a sottolineare che in Italia «c’è ancora la destra e c’è sempre Berlusconi», è perché — nel momento più difficile della sua storia biennale — proprio il presidente del Consiglio ha bisogno di trovare una sponda per spezzare l’accerchiamento di chi mira a sconfiggerlo al referendum. Così ritorna dove tutto era cominciato, in vista dei ballottaggi che spiegheranno se c’è un nesso tra le Amministrative e la futura consultazione popolare, cioè se il voto per le Comunali avrà un’incidenza sulla politica nazionale.
Non era dall’esito del primo turno che lo si poteva capire, sarà nel secondo turno che si vedrà se il variegato fronte anti renziano sarà capace di compattare i propri voti a Roma, a Milano, a Torino, per sconfiggere ora i candidati democratici e in ottobre il leader dei Democratici. La tesi di Renzi che «molti elettori» dei Cinquestelle, di Forza Italia e della Lega si esprimeranno a favore delle riforme costituzionali, si poggia sull’assunto che «la maggioranza dei cittadini» vogliono la riduzione del numero dei parlamentari e una semplificazione dell’iter legislativo. E dunque faranno «zapping» nelle urne.
In questo modo il premier mira a strappare la bandiera e le parole d’ordine dell’antipolitica per affermare se stesso e il primato della politica, inchiodando i suoi avversari al ruolo dei difensori della «casta» e dello status quo. Ma l’idea del plebiscito che Renzi ha suscitato nel Paese ha finito per piantarsi come un seme nell’immaginario collettivo e ha messo radici al di là della sua volontà. L’obiettivo iniziale era attirare l’attenzione degli elettori su un tema che non suscita emozioni, trasformando un confronto cattedratico sul modello istituzionale in un duello politico personale.
Non si è fermato al «se perdo vado a casa», ha voluto fare gioco sugli istinti dei suoi oppositori, aggiungendo che andare a votare sarebbe stato «un incentivo per tanti a votarmi contro». C’era una strategia dietro questa provocazione, che gli serviva per motivare il fronte a lui favorevole e mobilitarlo in vista delle urne: un’esigenza dettata dai numeri, siccome gli analisti ritengono che solo superando la soglia del 65% dei votanti il Sì avrà la meglio sul No. E infatti ora Renzi sta tentando di cambiare i toni, «non ce la faccio a vincere da solo questa sfida», ha detto davanti ai dirigenti della Coldiretti strappando il loro applauso.
Ma il seme ha messo radici, e la congiuntura non sembra favorevole al premier. Il suo rischio è aver esaurito la carica innovativa del rottamatore senza aver avuto ancora il tempo (o la possibilità) di guadagnarsi il profilo del buon governatore: e nel gioco dei consensi, perdere i primi senza aver consolidato i secondi rende tutto più complesso. Ecco la necessità di allargare il blocco dei riformatori, o meglio di ripristinare quell’area che consentì lo start-up del processo costituente: «La destra c’è sempre e c’è ancora Berlusconi». Di più: c’è un pezzo di classe dirigente della destra — del centrodestra — che è pronta a manifestarsi a favore del Sì, al momento opportuno.
È a loro, oltre che al Cavaliere, che Renzi pare rivolgersi. Senonché nella sfida referendaria è diventato centrale il tema della legge elettorale, con quel premio di maggioranza alla lista che è vissuto con ostilità e che fu pensato dopo le Europee, quando il Pd sfondò il tetto del 40%. Non è chiaro se il risultato delle Amministrative farà cambiare verso al premier, se — come uno yogurt — quel meccanismo dell’Italicum andrà in scadenza. Per ora il leader del Pd difende la legge, una linea Maginot dietro la quale si terrà quantomeno fino al referendum, per non manifestare segni di debolezza.
Ma già ieri quel muro mostrava delle crepe, perché quando Renzi ha citato il voto di Torino, «dove Fassino ha superato il 41%», ha dimenticato che lì il Pd si è fermato sotto la quota del 30% e che quel risultato è la somma dell’intera coalizione. Ecco: il premio alla coalizione è ciò che gli chiedono quanti sono pronti a sostenerlo al referendum, è la richiesta che fa anche Berlusconi, è un modo per far breccia al Sud dove il premier teme per ottobre. Perché al Sud i detentori dei «pacchetti di voti» di ogni partito, anche del Pd, sono pronti a danzare insieme a Renzi. Ma vogliono continuare a credersi «il sale della terra».