Corriere 7.6.16
Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese
di Ernesto Galli della Loggia
«Un
Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul
Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo
l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una
leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado
di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le
elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa
assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò
che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare .
P er
cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la
capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue
una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia)
da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso
trasversale a destra e a sinistra — così come, per l’appunto, gli era
capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida
di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso
dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente
l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale
«Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non
nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è
mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è
sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un
Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di
conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso
ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di
promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una
manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles
il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha
potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla
ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al
quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla
di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della
signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha
finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto
Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano,
presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in
inglese? Il Jobs act , poi il Migration compact , adesso si annuncia un
Social act : ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali
di tutto ciò?), il Migration compact , dicevo, ha ricevuto un educato
consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo
avanti. Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in
grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo
nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa
pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di
prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati
capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un
vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come
peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente
disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una
crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori
quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei
istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura
chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia
italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso
accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di
un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione
offertagli da una questione così simbolicamente significativa per
prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità
bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la
questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per
esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza
della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da
sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida
di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla
politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e
solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione
(specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la
cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La
verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la
necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» —
peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del
Pd — gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le
quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici
importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare,
interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo
si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in
tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non
gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero
che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe
politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi
rieleggere.
Per cambiare il Paese — come tre anni fa aveva detto
di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò
come un giovane Cesare democratico in potenza — non bastano spurie
alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna
riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un
programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di
lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri
perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del
Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente
(sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della
strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma
anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere
migliore di quello che è.