sabato 4 giugno 2016

Corriere 4.6.16
Perché è finita la stagione dei grandi sindaci
di Massimo Franco

L’ aspetto più vistoso del voto amministrativo di domani è lo squilibrio tra uno scontro ad altissima tensione tra i partiti, e la freddezza che si avverte nell’elettorato.
Non significa automaticamente che ci sarà un massiccio astensionismo, sebbene il pericolo sia reale. È che in realtà si è parlato poco delle grandi città da governare: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, per citarne alcune. La dimensione nazionale ha schiacciato quella locale. La stessa scelta dei candidati a sindaco ha seguito in prevalenza, almeno, dinamiche «romane» più che cittadine. I profili degli aspiranti «primi cittadini» e «prime cittadine» riflettono e esasperano la fine del ciclo dei «grandi sindaci».
Probabilmente era finito da tempo, come la Seconda Repubblica. Nel 1993, lo scontro per il Campidoglio tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini fu il laboratorio e la vetrina di una fase che sarebbe durata oltre un quindicennio. Segnata dal sistema maggioritario; dall’elezione diretta; e da un meccanismo di selezione della nomenklatura politica che portava poi naturalmente quei candidati ad affacciarsi legittimamente sul palcoscenico della politica nazionale: com’è accaduto per Rutelli e Fini, al pari di Leoluca Orlando dopo la sua prima giunta a Palermo, o a Massimo Cacciari a Venezia, o ancora Enzo Bianco a Catania; o lo stesso Antonio Bassolino a Napoli.
Oggi, invece, si fatica a vedere negli enti locali un piedistallo, tranne in alcuni casi: ad esempio in quello di Luigi de Magistris, sindaco uscente di Napoli, che vuole usare una rielezione per guidare la sinistra antirenziana. Forse perché con la crisi economica sono diventati centri di spesa così voraci e spreconi che alla fine hanno subito tagli di fondi consistenti. Da trampolini per il «salto» verso il Parlamento nazionale e i posti di governo, sono diventati retrovie di una classe politica incapace di evitare un gioco al ribasso; e trincee di prima linea dove si misurano tutti i rischi di quella che è stata chiamata «democrazia senza popolo»: la deriva verso percentuali di votanti che si assottigliano progressivamente e in maniera inesorabile, indebolendo l’investitura di chi viene eletto.
Il fatto che nella riforma del Senato sottoposta a referendum confermativo in ottobre il ruolo di alcuni di loro sarà quello di «parlamentari», anche se non eletti direttamente, non cambia la sostanza. Anzi, sull’onda montante della contestazione al sistema dei partiti viene insinuato il dubbio che la loro scelta servirà solo a proteggerli dalle inchieste della magistratura: accusa sbrigativa e strumentale, che finisce tuttavia per additare un problema reale di competenza e di trasparenza nella gestione dei Comuni e delle Regioni.
D’altronde, ci sarà una ragione se rispetto al passato le forze politiche hanno faticato a trovare candidature di vero richiamo. Un tempo, l’ambizione di diventare sindaci di una grande città spingeva donne e uomini del potere nazionale a rinunciare a posti di ministro e sottosegretario; o anche a prestigiose posizioni accademiche o nell’industria. I vertici dei partiti si sono dovuti inchinare ai «no» di chi non voleva correre per quegli incarichi, convinto che non ne valesse la pena. A ben vedere, anche chi ha accettato di farlo in alcune realtà, si è tenuto stretto il posto di deputato o di deputata: un paracadute contro la bocciatura.
A spaventare non sono soltanto le indagini, che hanno rivelato il saccheggio di Roma in modo eclatante, e mostrato realtà degradate un po’ dovunque, finendo per accreditare il malaffare come cifra della politica a livello locale. L’altro fenomeno è un trasformismo che irrita l’elettorato quasi quanto la corruzione, perché è vissuto come tradimento del mandato popolare. E soprattutto, al fondo si indovina la crisi dell’istituzione locale in quanto tale, segnata dagli scandali e dalla cattiva amministrazione. Insomma, se va registrato un cambio di passo, è in una direzione assai controversa, e tutta da decifrare nei suoi sviluppi.
Il connotato più vistoso di quella che semplicisticamente viene chiamata Terza Repubblica è la frammentazione. Significa una scomposizione progressiva dei vecchi gusci partitici e degli interessi che li amalgamavano; mancanza di una visione unificante del Paese; conflittualità generalizzata ma senza sbocchi; e fuga verso microidentità che impediscono di guardare al bene comune. Di questa involuzione, le Amministrative sono uno specchio fedele, perché riflettono quanto succede al «piano terra» della politica e della vita quotidiana.
Benché rassicurante, sarebbe miope pensare a una società civile virtuosa, contrapposta a partiti «brutti e sporchi». Piaccia o no, le nomenklature partitiche sono proiezioni di pezzi consistenti della realtà sociale, soprattutto nei difetti. Dunque, si va verso scelte a bassissima intensità, quasi per autodifesa rispetto ai toni inutilmente esasperati della politica. Eppure si tratta di scelte che pesano, da