Corriere 4.6.16
Il grande incantesimo di de Magistris, sindaco zapatista
La scommessa del primo cittadino di Napoli si collega al futuro di quella sinistra italiana che vede in Renzi il proprio nemico
di Goffredo Buccini
Traffico,
immondizia, degrado: e molto di più. Ogni voto amministrativo, in un
Paese poco pragmatico come il nostro, ha sempre - anche - un contenuto
ulteriore, politico quando non ideologico. E, se è pressoché dichiarata
la partita di prospettiva nazionale che i Cinque Stelle sperano di
giocare su Roma, è forse ancora più vistosa (benché non del tutto
esplicita) la scommessa di Luigi de Magistris su Napoli: e pone in
questione il futuro della sinistra italiana, quella che oggi vede in
Renzi il proprio babau.
Se i sondaggi non mentono troppo, il
sindaco uscente pare abbia realizzato un vero incantesimo napoletano,
convincendo i suoi concittadini di essere appena sceso da un pullman di
zapatisti a Mergellina anziché aver governato la terza città italiana
per cinque anni filati con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Salito sul palco della vittoria a giugno 2011 (« avimmo scassato !») con
promesse irrealizzabili come una raccolta differenziata al 70 per
cento, de Magistris era precipitato dal cuore dei napoletani in modo
così verticale da riaprire ogni tipo di manovra su Palazzo San Giacomo
ad appena metà mandato. E’ probabile soffrisse il ruolo istituzionale (e
la concretezza relativa) - il suo tratto tribunizio sposandosi assai
meglio con la bandana arancione che con la fascia tricolore.
Forse
la sua fortuna è stata, per paradosso, l’inciampo giudiziario di una
condanna in primo grado per abuso d’ufficio (poi ribaltata
dall’assoluzione in appello) che l’ha fatto incorrere - temporaneamente -
negli strali della legge Severino e l’ha trasformato da primo cittadino
in «sindaco di strada», da uomo delle istituzioni per forza in
agitatore per vocazione e per sospensione ope legis . Fuori da Palazzo
San Giacomo il sindaco-non sindaco ha sparato su norme e magistrati
(lui, ex magistrato), ritrovando la sua scapigliata ispirazione di
guevarista del Vomero. Ed è stato capace di sintonizzarsi - gli va dato
atto - con le pulsioni più profonde d’una città dove la plebe non s’è
mai trasformata compiutamente in popolo, dove la lotta sociale si fonde
col sanfedismo da oltre due secoli. Diffidando di quasi tutti (tranne
che del fratello Claudio, suo uomo-ombra e «precario» con zero euro di
reddito dichiarato), Giggino ha risalito la china e, guardandosi
attorno, ha capito dove si trovasse lo spazio per crescere ancora.
Se
a ottobre 2015, dopo l’assoluzione che l’ha restituito alla pienezza
delle funzioni amministrative, aveva colpito un attento osservatore
della politica napoletana come Marco Demarco per la sua pacatezza -
«misura le parole, non insulta...» - nel volgere di qualche settimana ha
rovesciato il copione. Con un mantra a presa rapida: siamo accerchiati,
noi napoletani soli contro tutti (ovvero: contro Regione, governo,
Unione Europea). E con l’idea di tenere assieme una coalizione che va da
Sinistra italiana fino al Partito del Sud e ai neoborbonici, venata da
suggestioni di secessionismo finanziario (vecchia fisima bossiana) e da
pulsioni pre-unitarie cui ammiccano persino i centri sociali . Il suo
programma avventuroso - che include il reddito di cittadinanza alla
faccia delle coperture d’un bilancio da anni sul crinale del default,
raffiche di assunzioni e nuove case popolari a Scampia - si coniuga col
richiamo continuo al Che e al subcomandante Marcos e a una «rivoluzione»
partenopea ormai in marcia, con inviti reiterati alla «battaglia» (Dio
non voglia che qualche anima semplice lo prenda alla lettera). Dunque è
in campo un intero armamentario antagonista, tradottosi nella rottura
con Renzi su Bagnoli (con toni incendiari cui sono seguiti scontri
all’arrivo del premier) ed enfatizzato nell’ormai famoso show al
Palapartenope («Renzi, devi avere paura, ti devi cag... sotto!») che ha
spinto il candidato di centrodestra Gianni Lettieri a chiedere
l’antidoping per Giggino .
Sbaglia Lettieri. Come sbaglieremmo noi
nel derubricare a follia ciò che è metodo, e metodo di successo, in un
Paese malato di alzheimer politico e sempre sedotto dai prestigiatori
talentuosi. Di fatto de Magistris assorbe l’elettorato grillino (infatti
i Cinque Stelle gli oppongono un non-avversario che pare uscito dalla
fantasia di Stefano Benni, l’ottimo ingegner Brambilla, monzese
juventino sulle pendici vesuviane). Ed eccita talmente le paure del Pd
da spingere ieri la candidata Valeria Valente a spendere nove decimi del
suo comizio di chiusura per parlar male di lui anziché bene di se
stessa. Il modello Po demos è assai più vicino a Giggino che all’esangue
traduzione dell’onesto Pippo Civati («Possibile»). E il tesoretto della
sinistra antirenziana, da Fassina a Roma ad Airaudo a Torino, calcolato
attorno a un 7 per cento, potrebbe diventare ben più cospicuo se
rimpinguato dal casatiello masaniellista in cottura nel rovente forno
napoletano. Qua e là, a mezza bocca, l’ha ammesso de Magistris, che gli
piacerebbe sfidare Renzi alle politiche nel 2018, certo da campione
della sinistra. Vincesse adesso, e magari al primo turno, il grande
sogno sarebbe a un passo: gli resterebbero solo da sfangare altri due
anni di fastidiosa realtà alla guida della città più difficile d’Italia.
In fondo, quisquilie.