Corriere 3.6.16
I fan dello «Stato illiberale» che usano i migranti e rileggono la pax americana
di Massimo Franco
I
cantori delle virtù di uno «Stato illiberale» si stanno moltiplicando:
perfino in Occidente. E disegnano quella che è stata definita «rinascita
autoritaria»; a volte vistosa, altre strisciante. Le tracce sono ben
evidenti prima e oltre il 2015, anno spartiacque della grande migrazione
in Europa; e prima di questi cinque mesi del 2016 con le nuove ondate
di disperati. Hanno dunque a che fare solo in parte con il tema dei
profughi mediorientali e africani. Semmai, confermano come il fenomeno
sia diventato uno dei catalizzatori della deriva che minaccia di
sgretolare la solidarietà e le istituzioni europee. C’è chi ricorda un
discorso fatto nel luglio del 2014 a Baile Tusnad, in Romania,
dall’attuale primo ministro ungherese, nel quale Viktor Orbán teorizzò
appunto l’esigenza di costruire un nuovo «Stato illiberale».
Mettendo
insieme in modo un po’ improprio Cina, Russia, Singapore, India e
Turchia, Orbán spiegò che nella crisi finanziaria del 2008 il modello
democratico aveva funzionato peggio di quello dei sistemi autoritari.
Contro la tempesta economica si erano rivelati vincenti, a suo avviso,
«sistemi che non sono occidentali, né liberali, che non sono democrazie
liberali, e forse nemmeno democrazie». Allora, le sue parole sembrarono
il delirio di un populista pericoloso e isolato. Due anni dopo, Orbán si
è rivelato l’avanguardia di un’offensiva contro una democrazia europea
in affanno; e contro le istituzioni che la riflettono, soprattutto. La
sfida, dunque, va oltre la delusione e il logoramento che pervadono le
politiche dell’Ue e degli Stati Uniti.
La filosofia alla base di
questa deriva e del suo successo crescente è l’idea che a essere
«illiberale» sia l’Europa odierna, «Bruxelles» intesa come sede del
potere continentale. Di qui la voglia di rivincita degli Stati; il «no» a
qualunque coordinamento con l’Ue nella vita dei governi nazionali,
subito interpretato come ingerenza; e il tentativo di costruire
sotto-alleanze che si affiancano a quelle tradizionali, cercando insieme
di eroderne il potere e di svuotarle dall’interno.
Lo confermano i
vertici ristretti di alcuni Paesi dell’Europa orientale in polemica con
«la globalizzazione e i valori occidentali», che puntano il dito contro
Commissione Ue, Bce e Fmi. Ma lo dimostra anche la tentazione di alcune
nazioni del Nord protestante di costruire un nucleo «duro e puro» in
funzione anti-mediterranea.
In questo schema, le ondate migratorie
per terra e per mare sono un ottimo pretesto per accelerare processi in
atto da anni; e per ridisegnare alleanze che non sono più scontate.
Così, il Vecchio Continente si ritrova spaccato tra filoamericani
polacchi, e filorussi come l’ungherese Orbán.
Ma Putin attira
nella sua orbita anche la leader del Front National francese Marine Le
Pen e il leghista Matteo Salvini: tutti accomunati dalla diffidenza
verso le istituzioni occidentali, considerate corrotte dalle oligarchie
finanziarie; e dalla riscoperta del nazionalismo in chiave autarchica e
isolazionista, sospinto dalla crisi economica e dalla paura
dell’immigrazione soprattutto islamica.
Secondo Michael Boyle, un
analista dell’istituto di ricerca sulla politica estera di Filadelfia,
sono vagiti di un «illiberal order» in arrivo: un modello che rifiuta i
principi democratici come li abbiamo conosciuti finora. In un saggio
sull’ultimo numero di Survival , il bimestrale dell’International
Institute for Strategic Studies di Londra, la minaccia posta alle
singole nazioni dai partiti populisti è descritta come un pezzo della
crisi; ma non la più inquietante. Il timore è che siano destabilizzate e
piegate al nuovo «credo» autoritario le istituzioni sovranazionali. Il
contraccolpo che si teme è «un rigetto dell’ordine internazionale
costruito dagli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale. Il
destino interno e internazionale del liberalismo sono legati più di
quanto si pensi».
In fondo, le istituzioni che negli ultimi
decenni hanno cercato di stabilire un ordine mondiale riflettevano i
sistemi che le avevano promosse. Gli architetti delle Nazioni Unite nate
nel 1945 a San Francisco su impulso dell’allora presidente Harry Truman
«importarono» una parte del sistema democratico statunitense. Ma quello
che si intravede adesso è un mondo multipolare, additato dal leader
russo Vladimir Putin già nel 2007, che come contraccolpo sull’Europa e
sull’Occidente implicherebbe anche un declino dei principi su cui si
basava. Si tratta di una sfida tra un sistema di valori e un altro,
favorito dagli errori dell’Occidente a guida statunitense. E per
paradosso, il modello viene importato dal mondo non democratico e non
occidentale.
D’altronde, lo stesso fenomeno di Donald Trump è il
prodotto dei limiti della presidenza di Barack Obama e della
radicalizzazione del Partito repubblicano. Il magma europeo sembra
destinato non tanto a creare un nuovo ordine, quanto a restaurarne uno
«che da tempo era solo in sonno», per dirla con Michael Boyle. Il
risultato è di rendere i legami e le alleanze internazionali più
volatili e intercambiabili; di fatto, più instabili.
Per gli Stati
Uniti, in particolare, «la crescente ambiguità nella scelta sia degli
alleati che dei nemici rappresenta un cambiamento sgradito rispetto alla
prevedibilità della Guerra fredda». E l’Europa, con le sue
contraddizioni e soprattutto con i suoi nazionalismi, sta diventando il
laboratorio dell’«ordine illiberale» e della «rinascita autoritaria».
Fino
a qualche anno fa, era chiaro da che parte stessero le ragioni e i
torti. La novità è che oggi la narrativa definita «populista» e quella
bollata come «elitaria e tecnocratica» si affrontano con un peso
politico quasi uguale, perché ognuna ritiene di rappresentare i veri
interessi del popolo europeo contro dinamiche disgregatrici. E il
sospetto crescente è che, in assenza di una ricostruzione su basi nuove
dell’identità e della strategia del Vecchio Continente, possa prevalere
il modello del passato: con conseguenze delle quali già si avvertono i
primi sintomi conflittuali.