Corriere 3.6.16
Il referendum e le sue conseguenze sul futuro di Cameron
di Antonio Armellini
Per
cogliere il senso del voto a favore o contro la Brexit , è importante
partire da quel particolare impasto di identità e separatezza — di
nazionalismi radicati e di nostalgie che aiutano le rimozioni — che è
alla base dell’idea di britishness . Solo così si possono spiegare
alcune posizioni difficilmente comprensibili a chi si trovi al di là
della Manica, come l’ostilità verso normative quale quella sull’orario
massimo di lavoro, vissute come una conquista sociale importante in
tutto il resto del continente e avversate in Gran Bretagna dagli stessi
lavoratori che protegge, in nome di un rifiuto aprioristico del
dirigismo di élites burocratiche distanti, senza volto e soprattutto non
inglesi.
Le argomentazioni dei sostenitori della Brexit scontano
un rallentamento temporaneo dell’economia, presto compensato
dall’indipendenza nazionale ritrovata, seguita dall’apertura verso un
mondo che attende di commerciare con una Gran Bretagna «liberata», dalla
soluzione del nodo dell’immigrazione, dal rilancio di una City sciolta
dai lacciuoli brussellesi, e così via. A poco vale che tali previsioni
vengano regolarmente demolite non solo da analisi ben più credibili, ma
anche da tutti i principali partner i quali — dagli Usa in giù sino alla
Cina e all’India — dicono senza mezzi termini di volere Londra
all’interno dell’Ue. Vale a poco, perché la campagna della Brexit non si
rivolge alla mente, ma alla «pancia» irrazionale degli elettori ed è
qui che ha il suo vero elemento di forza. Il punto cruciale del costo
economico di una fuoriuscita viene circonfuso di una serie di
rassicurazioni fantasiose, condite di cifre opinabili quando non
fortemente discutibili. Mentre su tutto plana lo spettro di una
immigrazione incontrollata, destinata a cancellare identità e sicurezza
della Gran Bretagna.
Per un Paese che non fa parte di Schengen —
ed è un’isola da sempre ben controllata — rinunciare in via di principio
all’apporto di una immigrazione da cui dipende molto del suo benessere
potrebbe sembrare singolare. I toni si fanno a volte surreali. Un
autorevole campione della Brexit , già membro di vari governi
conservatori, ha sostenuto in un recente dibattito che — diversamente
dalla Germania, per cui l’Europa ha rappresentato l’occasione
imperdibile di una palingenesi democratica dopo l’orrore del nazismo —
la Gran Bretagna «che la guerra, invece, l’ha vinta» non ha avuto
bisogno di alcuna rilegittimazione e tantomeno ha oggi bisogno
dell’Europa. È facile sorridere di simili considerazioni, ma esse
trovano un ascolto maggiore di quanto molti, in altri Paesi, immaginano:
su di esse ha fatto leva con successo la campagna della Brexit per
riportare sul filo di lana una competizione che all’inizio la dava
facilmente soccombente.
Il remain è rimasto impigliato in questa
logica, da cui fa fatica a districarsi. L’Ue è in primo luogo un
progetto politico; i nodi dell’economia e dell’immigrazione dovrebbero
essere visti così, operando le mediazioni del caso, ma parlare di
«progetto politico» a chi ha sempre rifiutato di vederla in questa
chiave, equivarrebbe a una sconfitta certa. Industria, finanza,
università si sono espresse a grande maggioranza per il remain , con
argomenti cui si è anche riferito il governo per la campagna guidata dal
Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. Quello che obiettivamente
dovrebbe essere un punto di forza, potrebbe però paradossalmente
rivelarsi di debolezza: gli appoggi vengono tutti o quasi da quell’
establishment di cui la «pancia» diffida, mentre riscopre la seduzione
trasversale della contrapposizione di classe.
La campagna della
Brexit ha avuto buon gioco nel sostenere che il remain è espressione di
interessi assai lontani dalla massa della popolazione, chiamata a
sopportare per l’ennesima volta in silenzio l’ingordigia rapace delle
classi dominanti. I suoi sostenitori sentono il fiato sul collo
dell’avversario e hanno capito — forse non troppo tardi — che devono
mettere la sordina ad argomenti razionali e puntare sull’avversione
della «pancia» del Paese per i salti nel buio, per indurla a votare
contro il cambiamento. È un gioco di paure incrociate che ha funzionato
in extremis per il referendum scozzese e potrebbe farlo di nuovo. Ma non
è detto.
Da qui al 23 giugno la partita si giocherà sulle
percezioni, prima che sui fatti, e l’incertezza è reale. I bookmaker s,
che in Gran Bretagna spesso ci colgono più dei sondaggi, continuano a
dare la Brexit perdente e c’è da sperare. Resta il fatto che, nel giro
di due anni, David Cameron ha messo due volte a repentaglio il suo
governo, con referendum che si potevano, se non evitare, gestire meglio;
prima sulla Scozia e ora sull’Europa. Comunque vadano le cose, il suo
futuro politico appare tutt’altro che brillante.