Corriere 3.6.16
Sul voto l’intreccio rimosso
Perché le municipalizzate sono un tabù elettorale
Colpisce
l’assenza di reazioni agli scandali e ai disservizi di grandi aziende
pubbliche, le cui risorse, affrancate dal controllo centrale, prendono
strade stravaganti tra società in Grecia e accordi con la Russia
La Corte dei conti calcola che i posti apicali nelle imprese locali arrivano a 38 mila
di Sergio Rizzo
Dice
molto, nel rush finale della competizione elettorale per i più grandi
Comuni italiani, l’assenza pressoché generale di reazioni agli scandali e
ai disservizi di alcune grandi aziende municipalizzate. Ma dice di più,
in una campagna che si sta spegnendo nella generale mancanza di idee,
la presenza di un tabù. La parola «privatizzazione» risulta pressoché
irrintracciabile nei programmi elettorali dei principali candidati. Che
anzi si sperticano nel difendere la proprietà pubblica delle aziende che
erogano, spesso male, i servizi pubblici ai cittadini. Lo fa perfino
chi si ispira alla tradizione liberale: curioso, no? Se poi qualcuno di
loro sfiora il tema, premette che l’azienda «va prima risanata». Subito
investito dalla sassaiola scagliata dai suoi competitori. Peggio ancora
per chi azzarda di far assorbire una società comunale tecnicamente
fallita qual è la romana Atac non da un privato ma da un altro soggetto
pubblico come le Ferrovie dello Stato. Il che avrebbe almeno il senso di
farle cambiare padrone, visti i bei risultati a cui l’ha portata quello
attuale. Ma non se ne parla. La cautela potrebbe essere giustificata da
una debolezza, tanto umana quanto però indicativa del modesto spessore
politico dei candidati: la paura di perdere voti. Le municipalizzate
sono serbatoi di consenso. Sono più di 300 mila i posti di lavoro
garantiti dalle ottomila società locali. Le partecipate di Roma Capitale
hanno a libro paga 37 mila persone. La sola Atac ne conta 11.871,e non è
da meno la milanese Atm, con più di 9 mila, sia pure con una qualità
del servizio assai diversa.
I numeri dei potenziali elettori sono
tuttavia la parte meno appetitosa della torta. Su questo giornale il
presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che «l’Atac è sempre stata la
cassaforte di un partito trasversale». Un partito dove non c’è destra né
sinistra, perché gli interessi affaristici del gruppo di riferimento,
quando non sono affari personali, sono l’obiettivo. Davanti al quale la
politica e le idee passano in secondo piano. Per averne la conferma
basta rileggere certe testimonianze rese in tribunale da alcuni imputati
al processo per Mafia Capitale, secondo cui le risorse per certe
fondazioni politiche arrivavano proprio dalle aziende di servizi
pubblici. Che sono diventate, quasi ovunque, il cuore del potere locale.
In
risposta alla privatizzazione delle grandi società di Stato, Regioni,
Province e Comuni hanno moltiplicato le proprie partecipazioni a ritmi
tali, e con intrecci tali, da far girare la testa al più smaliziato fra i
Gordon Gekko. Oggi gestiscono 28.096 pacchetti azionari, per più di 8
mila aziende pubbliche. Ed è lì, sia pure in misura diversa da caso a
caso, che «il rapporto incestuoso fra politica, sindacato e mondo delle
imprese» (sono sempre parole di Orfini) ha prodotto le sue peggiori
incrostazioni, favorito dalla penombra della periferia. Senza trascurare
la complicità, altrettanto incestuosa, di certi dirigenti e funzionari:
tecnici all’apparenza, emanazione della politica nella sostanza.
Boiardi in sedicesimi. Proprio lì, dove la luce dei riflettori filtra
con difficoltà, ci sono i soldi veri, perché le aziende possono essere
anche scassate e i servizi erogati di pessima qualità, ma di quattrini
ne girano valanghe. Parliamo di 115 miliardi l’anno. Tanti denari
significa tanti appalti e tanto lavoro anche per l’universo privato che
si accalca intorno, con modalità per le quali la rendicontazione sociale
è spesso assente.
Lì cresce un sistema che fra gli intrecci
azionari a cui accennavamo e certi collegamenti personali è diventato il
tessuto connettivo di un apparato di potere con ramificazioni senza
precedenti. Il recente disastro dei lungarni fiorentini ha fatto
scoprire a molti che Publiacqua, la società che gestisce gli impianti
idrici di Firenze, è per il 40 per cento di proprietà della romana Acea,
società quotata in Borsa di cui è importante azionista Francesco
Gaetano Caltagirone, che sta costruendo la metro C nella capitale con
un’impresa, la Vianini, a sua volta piccola azionista di Publiacqua.
Dalla stessa Acea proviene l’attuale amministratore delegato di
Publiacqua, incidentalmente consorte di un ex assessore dell’ex sindaco
di Roma Ignazio Marino. E quando dall’Acea è arrivato a Firenze, il suo
predecessore si è trasferito al timone dell’Acea. Mentre alla presidenza
della società fiorentina c’era l’attuale sottosegretario alle
Infrastrutture Erasmo D’Angelis, considerato fedelissimo di Matteo
Renzi, e il consiglio di amministrazione ha registrato anche il
passaggio della responsabile del ministero delle Riforme, Maria Elena
Boschi. Ma questo è solo un esempio.
Affrancate da ogni controllo
centrale, nel mondo delle municipalizzate le risorse pubbliche prendono
le strade più stravaganti: chi apre società in Spagna e Grecia, chi fa
accordi con la Russia, chi va a raccogliere la spazzatura in Senegal e
chi distribuisce l’acqua in Honduras. Qualche anno fa la Corte dei conti
calcolò che i posti apicali nelle imprese locali, fra consiglieri,
sindaci e dirigenti, raggiungevano lo sbalorditivo numero di 38 mila. Un
parco poltrone sufficientemente vasto per pagare debiti elettorali,
soddisfare le richieste clientelari, accontentare amici e famigli. Ciò
contribuisce a spiegare perché non solo nessuno vuole privatizzare, ma
nemmeno pensa a dismettere le tantissime scatole inutili. Prova ne sia
il fatto che la legge con cui già dal dicembre 2014 si imponeva agli
enti locali di predisporre piani di riordino delle partecipate per
sfoltire la giungla, due mesi dopo la sua scadenza era stata rispettata
da appena 3.570 delle 8.186 amministrazioni sottoposte all’obbligo. Le
altre 4.616 facevano: marameo! L’ex commissario alla spending review
Carlo Cottarelli predicò al vento la riduzione delle partecipate
pubbliche da 8 mila a mille. Ora Marianna Madia garantisce che la
riforma della pubblica amministrazione le taglierà drasticamente. Ma se
la dovrà vedere con il partito dei sindaci. Vecchi e, temiamo, anche
nuovi.