il manifesto 3.6.16
Quei palazzi del potere capitale
«Marcio
su Roma» di Andrea Colombo per Cairo. L’analisi politica dei fatti che
in 10 anni hanno mostrato la voracità di una corruzione tentacolare
di Giuliano Santoro
La
profezia nefasta risale all’unità d’Italia. Il ministro delle finanze
Quintino Sella auspicò che la capitale dovesse essere tenuta al riparo
da conflitti di classe e insorgenze sociali di ogni tipo. L’auspicio
venne poi ribadito da Benito Mussolini negli anni del fascismo. Roma
doveva ricordare i fasti e la missione storica dell’Impero, essere un
esempio per il paese. È avvenuto il contrario, la capitale d’Italia ha
rappresentato una mappa in scala dei mali del paese, un plastico dei
suoi conflitti e delle sue inerzie.
Questo campionario di aporie,
inefficienze, punti di frattura, rapporti di dominio e violenza è
ricomparso in occasione di Mafia Capitale. Dai diversi fili, non sempre
coerenti tra loro, che si dipanano da quell’indagine si muove Andrea
Colombo nel suo Marcio su Roma (Cairo, pp. 188, euro 15).
Il libro
presenta la qualità, tutt’altro che frequente, di riuscire a tenere
insieme i diversi piani delle vicende romane. Colombo maneggia i verbali
e le carte dei magistrati, li fa interagire con analisi sociologiche e
ragionamenti politici, puntella con la memoria del cronista e il
bagaglio di profondo conoscitore del milieu neofascista le fasi salienti
dell’inchiesta, annusa la strada e compulsa di documenti. Ne viene
fuori un ritratto solido ma felicemente aperto, polifonico e corroborato
da autorevoli punti fermi. Secondo il codice penale, il reato di tipo
mafioso può essere contestato quando viene «esercitata una forza
d’intimidazione derivante dal vincolo associativo». La matassa della
strana associazione mafiosa della Capitale si dipana a partire dalla
figura di Salvatore Buzzi.
È una storia di redenzione, quella che
ha condotto il galeotto dalla cella al vertice di una fitta rete di
interessi nel mondo della cooperazione. Una storia che prende il via
grazie all’impegno della sinistra romana e della società civile, in un
percorso insospettabile di liberazione dal carcere e di sperimentazione
di misure di pena alternative.
Accordi ingombranti
Negli
anni Buzzi costruisce coi suoi referenti politici un altro tipo di
rapporto, la loro relazione scivola sul piano inclinato della crisi
della rappresentanza, diviene clientelare.
Questa prima parte
della storia, quella del galeotto redento, serve a mettere in chiaro che
è vera solo in parte l’affermazione di Giuseppe Pignatone, uno che di
mafie ne ha conosciute avendo diretto le indagini a Palermo e Reggio
Calabria, secondo la quale il giro d’affari delle cooperative che fanno
capo a Buzzi è cresciuto vertiginosamente con la giunta Alemanno.
Colombo
racconta che il primo salto di scala avviene sotto l’amministrazione
Veltroni, nei primi anni zero. Poi Alemanno vince (inaspettatamente) le
elezioni, cerca di fare piazza pulita della rete di relazioni che fa
capo a Buzzi. Ma la destra al contrario del mondo cattolico è priva di
un insediamento nel mondo della cooperazione sociale. E decide di
arrivare a un accordo con l’ingombrante Buzzi, il Rosso.
Qui entra
in scena il Nero Massimo Carminati, per oliare ulteriormente i rapporti
tra amministrazione e Buzzi o come garante all’accordo raggiunto.
Dunque, il virus della «mafia» non aggredisce un corpo sano, lo trova
già fiaccato dalla corruzione. Che la relazione tra la mafia capitale e
la politica sia tutt’altro che lineare è confermato dalla risposta alla
seguente domanda, inevitabile. Se l’organizzazione di Buzzi e Carminati,
i boss rinchiusi al regime duro del 41 bis, è davvero un nuovo tipo di
criminalità organizzata come mai il Comune non è stato sciolto per
mafia? Per capirlo bisogna distinguere le due fasi proposte dagli
inquirenti: nella prima, risalente alla giunta Alemanno, il ruolo di
Carminati è preponderante e si può parlare a buon diritto di mafia.
Nella
seconda, corrispondente appunto al periodo della giunta Marino, il
Rosso e il Nero restano mafiosi, ma i loro ganci nell’amministrazione
sono soltanto corrotti. Ecco perché la politica pensa di assolversi
agitando lo spettro della mafia: una volta fatti fuori gli uomini di
Carminati dalle posizioni nevralgiche, basterebbe limitarsi a tagliare
qualche ramo secco dal quale penzola qualche mela marcia.
Subculture territoriali
Il
Rosso e il Nero hanno buon gioco a intessere relazioni con una politica
che è guerra permanente, nella quale non valgono strategie di lungo
periodo o visioni ampie. Il ruolo di Carminati si comprende risalendo la
storia del gangsterismo fascista e le diramazioni dell’inchiesta.
Dai
rapporti di Carminati e dei suoi con la Banda della Magliana, si arriva
alla galassia nera e al maxitruffatore Gennaro Mockbel, a reti
d’interesse e copertura che arrivano fino al servizi segreti e a
Finmeccanica. La Mafia Capitale cambia il verso nel «movimento del
malaffare».
La mafia tradizionale «parte dalle subculture
territoriali per condizionare gli apparati statali». In questo caso,
osserva Colombo, si «parte dai palazzi del potere per dominare pezzi di
società».
Così, l’inchiesta allarga il suo spettro alla ricerca
dei gangli del business, dai palazzi del potere alla città delle
periferie abbandonate, le «centralità» del Piano regolatore di Veltroni,
usate come grimaldello dall’eterno potere dei cementifica tori, il
sistema dei trasporti ingolfato dagli sprechi, i Grandi eventi come
espedienti per proclamare stati d’emergenza e spingere l’asticella
sempre più in alto, il disastro della linea C della metropolitana. Da
questa prospettiva, la città nella quale «tutti hanno paura di vincere»
si mostra ingovernabile.