Corriere 29.6.16
Noi britannici siamo sulla scala per l’inferno
di Niall Ferguson
Alcuni
anni fa, la catena di negozi di abbigliamento «French Connection» esibì
uno nuovo slogan di marketing ardito e appariscente: le iniziali Fcuk.
Sembra la parola giusta per il distacco britannico avvenuto settimana
scorsa.
In un suo intervento alla Bbc, il leader
dell’Ukip Nigel Farage ha definito i risultati come la vittoria della
«gente normale e dignitosa». Questa affermazione ha offerto una
prospettiva illuminante di come Farage consideri il 48% della gente che
ha votato per restare nella Ue. È stata sicuramente una sconfitta per
David Cameron, il Cancelliere George Osborne e i loro fedeli al governo.
È stata anche una sonora sconfitta per gli scommettitori, gli studiosi
di economia politica, gli opinionisti mediatici, la maggior parte dei
sondaggisti e la stragrande maggioranza degli investitori.
Fra
questi, vi erano gli stessi esperti che non avevano previsto la vittoria
di Donald Trump come candidato repubblicano — per non parlare della
vittoria del Leicester City nella Premier League.
Benvenuti
nell’anno delle improbabilità. E non è finita. L’arrivo di Donald Trump
in Scozia, subito dopo il dignitoso annuncio delle proprie dimissioni da
parte di David Cameron, è stato un orribile presagio di quanto potrebbe
accadere prossimamente.
Venerdì era anche il giorno in cui i Led
Zeppelin hanno vinto una vertenza di copyright della loro canzone più
famosa, Stairway to Heaven («Scala per il paradiso»). Prossimamente:
«Scala per l’inferno».
Le conseguenze economiche saranno
terribili. Nel caso della Gran Bretagna, la dimensione del disavanzo
delle partite correnti — oltre il 7% del Pil nell’ultimo trimestre del
2015 — significa un duro colpo inferto alla fiducia degli interlocutori
esteri. Il suo impatto proseguirà ben oltre il forte deprezzamento della
sterlina di venerdì. Il Regno Unito ha appena votato per la sua
recessione. Gli investimenti crolleranno. Il beneficio di una sterlina
più debole per le esportazioni non compenserà un tale shock.
L’obiezione
della campagna a favore del Leave circa il costo dell’adesione alla Ue
pari a «350 milioni di sterline a settimana» ora appare ridicola come
una bugia. Gli investitori britannici hanno perso molto di più di quanto
accusato quel venerdì mattina.
Il risultato immediato del
referendum è la distruzione di quello che doveva essere il governo più
efficace degli ultimi 25 anni. Tra il 2010 e il 2015, malgrado i vincoli
del governo condiviso con i Democratici liberali, David Cameron and
George Osborne avevano trascinato l’economia del Regno Unito fuori dal
tunnel ereditato da Gordon Brown. Il governo stava facendo enormi passi
avanti in ambiti strategici quali l’istruzione secondaria e la minaccia
dell’estremismo islamico.
Il fatto che né Boris Johnson né Michael
Gove abbiano fretta di prendere le redini del potere — il leader dei
Commons pro Brexit Chris Grayling ha infatti pregato Cameron di restare
altri due anni — ci dice cosa dobbiamo fare in merito alla sostanziale
frivolezza della campagna Leave, che ha sempre negato le gravi
conseguenze economiche della Brexit. Ora vorrebbero scaricare le
conseguenze su qualcun altro.
Il risultato è che, mentre
l’economia del Regno Unito retrocede, la classe politica britannica
dedicherà tre mesi alla competizione per la leadership dei conservatori,
che sarà sicuramente aspra. Faccio fatica a immaginare come il
Gabinetto possa funzionare in tali condizioni.
Nel frattempo,
possiamo pure aspettarci delle difficoltà per il disastroso leader
laburista Jeremy Corbyn. Il problema è che il partito laburista
parlamentare non decide la guida del partito. I sostenitori troztkisti
di Corbyn potrebbero riuscire a proteggere il loro uomo tra le file più
ampie del partito laburista.
In ogni caso, la novità centrale del
24 giugno è lo scisma all’interno del Labour Party. Se, come pare
probabile, una quota superiore alle aspettative di elettori laburisti
inglesi e gallesi hanno appoggiato la Brexit perché conquistati
dall’esplicita campagna anti immigrazione di Farage, le prospettive
dell’Ukip di emergere quale reale forza politica inglese sono rosee. In
queste condizioni, non riesco a immaginare che un numero sufficiente di
parlamentari appoggi il voto necessario per avviare un’elezione generale
anticipata.
Eppure, è sempre più difficile immaginare come sarà
il prossimo Parlamento britannico senza elezioni entro il 2020. Il
tradizionale sistema inglese bipartitico, che dal 1980 al 2015 era
piuttosto tripartitico, è sull’orlo di una completa disintegrazione. La
vecchia politica centrata sulla classe — così in auge nel ventesimo
secolo — cede il passo a quella basata su età e identità.
L’enorme
divario generazionale è tra le caratteristiche più salienti del
referendum. Quasi due terzi della popolazione di età compresa tra 18 e
24 anni ha votato per la permanenza in Europa. Anticiperei anche un
divario etnico abbastanza pronunciato. In sintesi, è stata la vittoria —
di Pirro in termini economici — degli elettori più anziani, bianchi,
delle classi operaie della provincia inglese e gallese.
Una
conseguenza importante della vittoria della Brexit è stata la riapertura
della questione scozzese. Qualche ora dopo il risultato, il primo
ministro scozzese Nicola Sturgeon ha chiarito di voler promuovere un
altro referendum sull’indipendenza scozzese. Credo che i loro sforzi
possano avere successo, e che un secondo referendum si pronuncerebbe a
favore dell’uscita dal Regno Unito (e del rientro nella Ue).
Anche
nell’Irlanda del Nord, il direttorio di Sinn Fein non ha perso tempo
nell’invocare un referendum sulla riunificazione irlandese. I rischi
della vittoria dei separatisti per la stabilità della regione sono già
evidenti. Quindi, il voto a favore della Brexit potrebbe rivelarsi un
voto a favore della frattura della Gran Bretagna. Intanto, i pochi
restanti possedimenti britannici d’oltremare — da Gibilterra alle isole
Falkland — sono disponibili per il miglior offerente. La Spagna ha già
avanzato un’offerta per la prima.
La scorsa settimana, ho
avvertito che un divorzio tra il Regno Unito e l’Unione Europea sarebbe
stato oneroso e avrebbe richiesto molto tempo. Venerdì il presidente
della Ue Donald Tusk è intervenuto in manifesta rappresentanza dei
rimanenti 27 Stati membri della Ue, dichiarando che questi avrebbero
«mantenuto l’unità». Mi aspetto che facciano sul serio.
Il motivo è
chiaro. Molti leader della Ue subiscono la pressione dei partiti
politici populisti schierati contro l’eurozona e l’immigrazione. Per
loro, l’esito del referendum britannico è un semaforo verde per
richiedere i loro referendum; qualunque atteggiamento indulgente del
Regno Unito non farebbe altro che incoraggiarli ulteriormente. Già
venerdì, Geert Wilders, del Partito Olandese della Libertà, ha invocato
un referendum olandese e Marine Le Pen, del Fronte Nazionale Francese ne
ha invocato uno in Francia. «Dexit» and «Frexit» sono già in agenda.
Con le elezioni previste l’anno prossimo in entrambi i Paesi, abbiamo
appena assistito alla prima puntata della disintegrazione della stessa
Ue.
Per coloro che vanno indietro con i ricordi fino all’epoca di
Stairway to Heaven — coincidenti con quelli che hanno decretato la
vittoria del Leave — questo risultato è una vittoria postuma di due
leader populisti degli anni Settanta. Enoch Powell era contro l’adesione
Britannica alla Comunità Economica Europea, perché la vedeva come una
seria minaccia per la sovranità parlamentare. Era anche accanitamente
contrario all’immigrazione, in quanto temeva il conflitto e la
frammentazione sociale.
L’altro leader era Tony Benn, il cui euroscetticismo era radicato nelle suo credo socialista.
In
definitiva, la vincitrice è la classe operaia inglese. Sì, è stata una
rivolta contro Bruxelles; forse anche contro l’«austerità» e le
stagnanti retribuzioni reali; ma soprattutto contro l’immigrazione, e
un’élite politica fatalmente sorda al loro malcontento.
A pagare
il prezzo più caro di questa situazione è stata Jo Cox, uccisa da un
folle di nazionalità scozzese al grido di «Prima di tutto la Gran
Bretagna». David Cameron e George Osborne lo stanno pagando con i loro
mandati. Non saranno gli unici. Tutti gli altri pagheranno presto.
L’Fcuk, appunto.
(Traduzione di Ettore C. Iannelli)