Corriere 29.6.16
Il laburista sfiduciato che resiste in trincea
di Paola De Carolis
LONDRA
Non molla. 172 deputati laburisti su 225 hanno votato contro di lui.
Non credono che sia l’uomo giusto per guidare il partito nelle
trattative per sganciarsi dalla Ue e le prossime elezioni generali, ma
lui non se ne va. Secondo Jack Straw, ex ministro degli Esteri e della
Giustizia, il Labour attraversa una delle crisi più serie della sua
storia. Per Alastair Campbell, ex portavoce di Tony Blair, l’unica
speranza è «che qualcuno o qualcosa impedisca a Jeremy Corbyn di
distruggere il partito».
Sono circa sessanta le dimissioni che da
domenica a ieri sono state rassegnate al leader dell’opposizione, mentre
i politologi già paragonano i drammatici sviluppi degli ultimi giorni
alle defezioni che nel 1981 portarono alla creazione dei
Liberal-democratici.
La serie di eventi che ha lasciato Corbyn con
appena un quinto dei suoi deputati è stata innescata sabato da Hilary
Benn, ministro degli Esteri del governo ombra, figlio di Tony, leggenda
Labour. È stato il primo a sfiduciare apertamente Corbyn.
Quando
Corbyn lo ha sollevato dall’incarico è cominciato l’esodo. 40 deputati
si sono schierati dalla sua parte, ma già in serata una di loro, Liz
McInnes, è passata dall’altra parte. «Non ho votato contro Jeremy perché
non mi sembra il momento di prendere decisioni sulla nostra situazione
interna — ha sottolineato —. Sembra evidente però che abbia perso la
fiducia del suo gruppo parlamentare e che quindi non sia in grado di
essere il leader di questo partito».
Corbyn non è d’accordo. I
deputati sono una cosa, il partito è un’altra. Lui è stato eletto dal 60
per cento dei membri del partito che era alla ricerca «di una politica
nuova».
«Non li tradirò dando le dimissioni», ha assicurato. Il
voto di ieri «non ha legittimità costituzionale». «Il Labour è un
partito democratico con regole chiare».
Fedelissima Diane Abbott,
che con le dimissioni di massa è stata promossa a ministro per la Sanità
del governo ombra. «Non sono i deputati a scegliere il leader, è il
partito: i deputati dovrebbero solo fare il loro dovere e unirsi dietro
al leader». Simile la posizione di John McDonnell, cancelliere dello
Scacchiere del governo ombra. «Questi deputati sono intenzionati a
sovvertire la democrazia».
Per Corbyn, che parla di «golpe da
corridoio», sono giorni difficili. Il suo obiettivo era di includere
nella vita di Westminster comunità che generalmente si sentono escluse
dal sistema politico.
È per questo che al suo primo Question Time
presentò al primo ministro David Cameron non una domanda sua ma una
arrivata da un normale cittadino per posta elettronica.
Il
referendum ha dimostrato però che tante regioni tradizionalmente fedeli
al partito laburista hanno votato contro: Corbyn non si è battuto con la
necessaria efficacia, dicono i suoi critici, ma forse era una missione
impossibile. Sembra inevitabile, adesso, che ci sia una sfida alla
leadership.
Tra i possibili candidati, Angela Eagle, ministro
dimissionario per l’Industria e l’Imprenditoria, che ha lasciato
l’incarico con le lacrime agli occhi. Potrebbe essere lei la candidata
in grado di unire il parito?
Dovrebbero presentarsi anche Tom
Watson, il vice di Corbyn, e Yvette Cooper, sconfitta da Corbyn l’anno
scorso, secondo la quale «Corbyn non ha un piano alternativo per il
Paese dopo la Brexit e con il passare dei giorni è sempre meno la
possibilità di far valere un punto di vista progressista». Corbyn,
comunque, ha fatto sapere che ha tutte le intenzioni di ricandidarsi.
Gli servono 50 voti.