Corriere 28.6.16
La poesia della vanità
La grande letteratura della caducità si contrappone all’effimero di oggi
Da
Góngora a Leopardi, gli scrittori che hanno cantato la fugacità delle
cose destinate a passare e morire. Tra desiderio e dolore, nostalgia e
disincanto. Lontano dal fatuo cinismo della conversazione mondana
di Claudio Magris
C’
è un abisso fra vanesio e vano. Lo dicono pure le definizioni
antitetiche che il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore
Battaglia dà della voce Vanità . «Fatuo compiacimento di sé e delle
proprie capacità e doti; reali o presunte, accompagnato da ambizione, da
smodato desiderio di suscitare plauso e ammirazione; eccessiva stima di
sé, del proprio valore, della propria origine o estrazione; vanagloria,
immodestia, presunzione; superba e sprezzante ostentazione della
propria autorità». Credo che, a queste parole, sfilino davanti gli occhi
della mente di ognuno di noi volti di gente famosa o di conoscenze solo
personali, vip o presunti vip d’ogni genere, interi clan della
politica, dei salotti, delle assemblee e, forse più rozzi e impudenti di
tutti, della cosiddetta cultura e della letteratura. Ovviamente questa
sfilata di pretenziose vacuità si interpone, in ognuno di noi, tra il
nostro volto e lo specchio, risparmiandoci e impedendoci di vedere la
nostra supponente vacuità.
Ma c’è, nella stessa pagina del
Dizionario , un’altra definizione di Vanità: «Precarietà, transitorietà,
labilità, caducità, durata effimera, passeggera di ciò che è destinato a
perire, della vita stessa». Questa, più che Vanità, è Vanitas e ha poco
a che fare con la spocchiosa presunzione; non è l’ostentazione di alcun
pregio esclusivo, perché è una condizione universalmente umana ed è il
sentimento della stessa. È il senso di uguaglianza di tutti gli esseri
umani, soggetti al comune destino di appassire, sfiorire e svanire e di
vedere appassire, sfiorire e svanire ciò che desiderano, che amano, in
cui credono e che vorrebbero far loro per sempre. Boccaccio parla dello
«splendore balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che dalla
Vanità delle cose della presente vita nasca questa luce a guisa di
baleno, il lume del quale essendo sùbito reca seco ammirazione, e poi
subitamente si converte in nulla». Petrarca, accennando alla donna amata
ormai vecchia, evoca «de’ vostri occhi il lume spento; / e i cape’
d’oro fin farsi d’argento».
Ma è soprattutto il Barocco a sentire —
e ad amare, col senso di amare invano — le cose fugaci votate a passare
e a morire. Protagonista e motore della Vanitas, per Marino è il tempo:
«Un lampo è la beltà, l’etate è un’ombra, / né sa fermar l’irreparabil
fuga [---]. Amor non men di lui veloci ha i vanni, / fugge co’ l fior
del volto il fior degli anni». La donna è rosa che sfiorisce, il sole è
vissuto e ammirato quando cala: «Così riluce il sol più dolcemente —
dice un sonetto di Fabio Leonida — e meglio si vagheggia, allor che
scende, / passato ‘l mezzo dì verso Occidente». La Vanitas non è solo
malinconia e stanchezza, ma è anche e forse soprattutto intensità di
desiderio, tanto più appassionato quanto più consapevole della caducità
del proprio oggetto e di se stesso. «Così trapassa al trapassar d’un
giorno — canta l’uccello dalle piume variopinte nella Gerusalemme
liberata — della vita mortale e il fiore e il verde; / né, perché faccia
indietro april ritorno / si rinfiora ella mai, né si rinverde. /
Cogliam la rosa in sul mattino adorno / di questo dì, che tosto il seren
perde; / cogliam d’amor la rosa; amiamo or quando / esser si puote
riamati amando».
Questo senso della Vanitas pervade la letteratura
barocca di tutta Europa; per fare solo un esempio si pensi a Góngora.
«Mientras por competir con tu cabello / oro bruñido al sol relumbra en
vano…, mentre per emulare i tuoi capelli / oro brunito al sole splende
invano» e la poesia si conclude: «Godi collo, capelli, labbro e fronte, /
prima che quanto fu / in età dorata / oro, giglio, garofano, cristallo,
/ non soltanto in argento o viola tronca / si muti, ma tu e tutto
unitamente / in terra, fumo, polvere, ombra, niente – en tierra, en
humo, en polvo, en sombra, en nada». C’è pure un pathos della Vanitas,
«labirinto» — diceva Foscolo, contestandolo — in cui dobbiamo
necessariamente perderci». La Vanitas può tuttavia non solo ispirare
struggente amore per le cose amate ed effimere, ma diventar essa stessa
oggetto e sostanza d’amore, come accadrà soprattutto nel Decadentismo.
Amare non tanto qualcuno o qualcosa, ma l’amore stesso, l’amore vano;
forse pure la parola, la musica melodiosa della parola «vano» — il
«desir vano» di Ariosto, melodia delle sirene del cuore.
Un grande
esempio di questa poesia della Vanitas è Pascoli. Egli ama le nuvole
vane forse solo perché sono vane, il suo desiderio va alla loro lieve
inconsistenza, alla loro rapida caducità. Nello stupendo U ltimo viaggio
dei Poemi conviviali Odisseo, giunto all’isola Eea, l’Isola di Circe,
si addentra tra i boschi e le macchie, seguendo il suono della cetra di
Femio, l’aedo, ma trova quest’ultimo disteso su un mucchio di foglie
secche, morto. È il vento che fa suonare la cetra appesa ai rami di un
albero, «così mesto il canto / n’era e così lontano e così vano». È la
più grande celebrazione poetica di ciò che è vano e appare l’essenza
stessa della poesia, oggetto di un amore indicibile, che non solo non si
può raggiungere ma che è amore solo perché è potenziale, non ancora
detto, non oggettivato: «L’amore che dormìa nel cuore, / e che destato
solo allor ti muore». Si ama solo finché non si ama qualcosa o qualcuno
di determinato, finché si ama la Vanitas, il desiderio. Un’eco che
risuona in tanti poeti successivi, sino ai giorni nostri.
Ben
altra è la Vanità di cui canta il più grande dei suoi poeti e uno dei
più grandi poeti in senso assoluto, Leopardi. La leopardiana «infinita
Vanità del tutto» non è il morbido o struggente fascino del fumo in cui
dilegua ogni cosa e ogni sentimento. È l’asciutta, oggettiva, altissima
poesia di una ferma constatazione del nulla. «Delle cose create, non
rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo, e una quiete altissima,
empiranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso
dell’esistenza universale, innanzi l’essere dichiarato né inteso, si
dileguerà e perderassi». Sia o no tutto questo effetto del «brutto /
poter che, ascoso, a comun danno impera», si tratta della più alta
espressione dell’universale diventar nulla in tutte le cose.
Molto
è stato scritto sul pessimismo leopardiano; pochi anni fa in un
incisivo, assai notevole libro di Andrea Rigoni, Leopardi diviene la
chiave che introduce al tema generale e variegato della Vanità, cui il
libro esplicitamente si intitola, Vanità . La prospettiva di Rigoni è
vasta e include numerosi autori; se c’è la sublime Vanità di Leopardi,
c’è la Vanità superficiale e facile di chi reagisce all’inconsistenza
del mondo e della vita identificandosi con essa, facendone un vezzo o un
distintivo di raffinata intelligenza, votandosi alla futilità con falsa
civetteria, autoconvincendosi di snobbare e disprezzare la mondanità
cui smania di avere accesso, fingendo con se stesso di ridacchiare delle
élites in cui in realtà brama di far parte, credendosi il Narratore
della Recherche affascinato dai Guermantes ma incapace, a differenza dal
narratore proustiano, di capire che i Guermantes sono sin dall’inizio,
già da sempre, i Verdurin.
Nel sentimento e nella rappresentazione
leopardiana della Vanità del tutto si avverte, asciutto e classicamente
dominato, il profondo dolore per questa Vanità, l’impossibile desiderio
— percepito come vano ma non perciò meno doloroso — che la vita sia
diversa. L’altissima poesia leopardiana della Vanità del tutto non
ammette né struggimenti per la Vanitas né civetterie salottiere. «Vaghe
stelle dell’Orsa io non credea…». Esattamente l’opposto del pessimismo
compiaciuto e soddisfatto, e dunque filisteo, di un Cioran, pienamente a
suo agio nella proclamazione del nulla e abile nel mascherare la
gratificante banalità in una maschera di Vanità che, proprio
presentandosi volutamente e anzi esibendosi volutamente come tale,
suggerisca e faccia supporre dolorose profondità dissimulate nel fatuo
cinismo della conversazione mondana.