Corriere 27.6.16
Il sì, il no. Ma vince la tecnica
di Emanuele Severino
Che,
votando per il «Sì», la Costituzione debba esser cambiata in un certo
modo è un’ ipotesi . Certo, le forze politiche da cui è sostenuta la
considerano una proposta sostanzialmente adeguata ai bisogni della
società italiana e capace di risolvere certi suoi importanti problemi.
Ma è un’ipotesi perché è il risultato di un compromesso. E
inevitabilmente. Gli avversari sostengono che le forze di governo hanno
lavorato troppo poco per un compromesso soddisfacente, ossia per la
condivisione più ampia possibile da parte delle opposizioni. Tuttavia,
per quanto ridotto, esso c’è stato. E un compromesso è voler tenere
insieme posizioni antitetiche; ossia è una contraddizione più o meno
vistosa. Appunto per questo ho affermato che, dicendo «Sì» a quel certo
modo di cambiare la Costituzione, si approva un’ ipotesi . La quale
dunque non può escludere che esistano altri modi e motivi di stare per
il «Sì», senza condividere quelli proposti dal governo. Proprio perché
le ragioni del «Sì» (come quelle del «No») non sono indiscutibili, la
propensione per il cambiamento della Costituzione si distingue cioè
dalla propensione per le ragioni con le quali oggi il «Sì» viene
sollecitato. Inoltre, tali ragioni essendo un compromesso, nemmeno i
loro sostenitori ottengono, in caso di vittoria, quel che avrebbero
voluto ottenere.
D’altra parte, venendo ai sostenitori del «No»,
come pensano di ottenere — oggi o domani — quella condivisione più ampia
possibile da avversari che, secondo questi stessi sostenitori, mostrano
di non darle troppa importanza? Credono forse che quanto i loro
avversari non sono disposti a concedere loro siano invece disposti a
concederlo quando fossero essi, i sostenitori del «No», a proporre il
loro modo di intervenire sul testo della Costituzione? Intendo dire che
nemmeno i sostenitori del «No» potrebbero ottenere quella condivisione
più ampia possibile che da essi viene perorata. Pertanto, se volessero
esser coerenti, dovrebbero rinunciare al cambiamento (o non cambiamento)
costituzionale da essi preferito. Se cioè, come condizione sine qua non
, richiedono la maggior condivisione possibile, ogni modifica
costituzionale verrebbe in tal modo indefinitamente differita e quindi
bloccata. Oppure, voltando le spalle alla coerenza, dovrebbero
rassegnarsi a un cambiamento che avrebbe lo stesso vizio da essi
riscontrato nei sostenitori del «Sì», e cioè la mancanza di un’ampia
condivisione. (E anche se i sostenitori del «No» e di una forma diversa
di cambiamento ottenessero una più ampia condivisione, anche questo, e a
maggior ragione, sarebbe un compromesso che non darebbe loro quel che
avrebbero voluto). D’altronde, la Costituzione va cambiata perché, a sua
volta, di contraddizioni ne contiene (e vistose); alcune delle quali
sono state indicate anche da me, soprattutto quelle relative
all’articolo 7, che dovrebbe regolare i rapporti tra Stato italiano e
Chiesa cattolica.
I teorici del «No» affermano inoltre che la
riforma costituzionale proposta dal governo è dannosa perché, oltre alla
debolezza giuridica di certi suoi contenuti (che indubbiamente
sussiste), indebolisce anche la democrazia italiana. Non sembra però che
quei teorici ritengano che la indebolisca fino al punto da eliminare
ogni futura consultazione elettorale con cui la maggioranza, delusa
dall’attuale governo, possa deporlo. In democrazia i danni sono tali in
quanto vengono percepiti come tali dalla gente. Quindi, nel caso di una
vittoria del «Sì», se l’elettorato ne avvertisse come dannose le
conseguenze, una futura consultazione elettorale gli consentirebbe di
rimettere le cose a posto, ossia di mandare al governo la formazione
politica che avrà convinto gli elettori della propria capacità di
rimediare ai danni prodotti dall’eventuale vittoria del «Sì» in autunno.
E peraltro, in un mondo sempre più pericoloso, non è forse richiesto un
controllo tale della società, che riduce inevitabilmente le libertà
democratiche anche se i politici possono non rendersi conto di tale
inevitabilità?
Il «Sì» dà troppo potere al governo attuale — si
obietta —, che diventa determinante nella elezione del presidente della
Repubblica, nella formazione della Corte Costituzionale, ecc...
L’obiezione, insieme ad altre che in questi giorni si sentono ripetere,
ha la sua consistenza. È però difficile accantonare l’impressione che
alla radice di tutte queste obiezioni agisca la rivendicazione del
primato autentico della politica contro una forma di governo che afferma
sì di esser d’accordo su tale rivendicazione, ma che in realtà sta
accentuando la propria dipendenza dai poteri economici, ossia dal
sistema capitalistico.
Vorrei, allora, richiamare una dimensione
concettuale che, mi sembra, è trascurata dalle pur alte competenze
giuridiche dei costituzionalisti favorevoli al «No». Vado richiamando da
tempo l’«inevitabilità» della sequenza, di carattere planetario, che
dal tempo del primato della politica sull’economia conduce al
rovesciamento dove è l’economia ad avere il primato sulla politica, e
infine al tempo — di cui già si avvertono consistenti avvisaglie — dove
sarà la tecnica ad avere il primato sull’economia (e sulla politica).
Che la tecnica abbia questo primato significa che sarà la tecnica a
poter rendere il mondo meno pericoloso e che per farlo dovrà tenere
sotto controllo (e quindi limitare) la domanda di democrazia.
La
nostra è l’epoca della specializzazione scientifica, quindi anche
giuridica; ma la scienza è diventata specializzazione proprio per
sbloccare le paralisi dell’agire umano, ossia per aumentare la potenza
dell’uomo, paralizzata invece dai Limiti che le grandi forme della
tradizione le impongono. Se però la specializzazione è praticata in modo
da farle perdere di vista il contesto in cui essa si trova, essa
diventa un fattore bloccante, riduce la potenza dell’uomo. Ora, il
contesto dei contesti, nel mondo attuale, è la sequenza a cui ho
accennato: quella che dal primato della politica conduce al primato
della tecnica. In questa situazione, ogni rivendicazione del primato
della politica ha la pretesa di risalire la corrente, è cioè una lotta
di retroguardia. La stessa economia capitalistica, che ancora domina il
mondo, ha istituito rapporti tali, con l’apparato tecno-scientifico, che
fanno trasparire la destinazione al dominio da parte di quest’ultimo.
La
cautela con cui si procede nelle riforme costituzionali è dovuta
all’esigenza che non vadano perduti certi valori imprescindibili
contenuti nella Costituzione italiana — soprattutto quelli riguardanti i
diritti dell’uomo. Ma la destinazione al dominio della tecnica è
insieme la formazione di un diverso modo di essere uomo — diverso dalle
interpretazioni che dell’esser uomo sono state date lungo la storia
dell’Occidente: cristiana, rinascimentale, illuminista, capitalistica,
comunista, eccetera. La gran questione è allora se una Costituzione,
mostrando di difendere i diritti umani — e dando a questo suo intento
un’impronta decisamente giusnaturalistica — non abbia invece a difendere
una di quelle interpretazioni, lasciando sullo sfondo il senso
autentico che l’esser uomo ha assunto lungo la storia dell’Occidente.
Giacché dubbi in proposito se ne possono e se ne debbono avere, visto
anche che tutte le leggi — e soprattutto la Grundnorm in cui la
Costituzione di uno Stato consiste — sono scritte dai vincitori (sempre
poco propensi a ottenere la condivisione dei vinti). A chiarimento di
quanto ho asserito, concludo dicendo che quel che ho chiamato «senso
autentico» dell’esser uomo è sotteso (restandone variamente alterato) a
tutte le interpretazioni che se ne sono date, ed è l’uomo come forza
cosciente capace di coordinare mezzi in vista della produzione di scopi.
Ciò significa che, al di là di ogni superfetazione, l’uomo è un essere
tecnico . Infatti l’essenza della tecnica, quindi anche della tecnica
guidata dalla scienza moderna, è appunto e innanzitutto quella capacità
di coordinamento.