Corriere 23.6.16
Un leader accerchiato dal silenzio del partito
di Massimo Franco
Forse
Matteo Renzi deve cominciare davvero a preoccuparsi. Quando esponenti
del Pd si affrettano a dire che deve rimanere a Palazzo Chigi anche se
perde il referendum sulle riforme istituzionali, e in parallelo
declinano gli inviti a puntellarlo in segreteria, c’è qualcosa che non
funziona. La prima anomalia riguarda l’evocazione di una sconfitta a
ottobre, mai avvenuta prima. La seconda è l’ipotesi che Renzi possa
continuare a fare il premier dopo l’eventuale sconfitta. La terza è il
no diffuso a partecipare alla gestione di un partito umiliato dal
Movimento 5 Stelle. La somma è l’ombra di una sfiducia nei suoi
confronti.
Si tengono tutti a due passi di distanza. Assicurano di
essere pronti ad «aiutare», a cominciare dal presidente della Regione
Lazio, Nicola Zingaretti; ma tenendo distinto il proprio profilo. Vale
lo stesso per il governatore della Toscana, Enrico Rossi, generoso nel
dichiarare che non ci deve essere «automatismo» tra sconfitta
referendaria e dimissioni; ma anche a stroncare il leaderismo in nome
del «bisogno di unità». È il silenzio della maggioranza renziana, però, a
colpire ancora di più: come se la vittoria dei seguaci di Beppe Grillo
avesse azzerato strategie e certezze.
Appena dieci giorni fa il
segretario-premier minacciava «il lanciafiamme» contro gli avversari
interni. Adesso tende mani in tutte le direzioni. Ai Comuni coi quali
«come è logico e ovvio, il governo è pronto a collaborare con lealtà
istituzionale». Al Pd dove «in molti mi chiedono di ascoltare con
attenzione il messaggio di queste Amministrative. Accolgo volentieri il
suggerimento per capire come e dove possiamo fare meglio». Ma Renzi
sente che il fiato delle correnti è tornato a soffiare.
La
discussione non può «essere rimpiazzata dalla classica polemica sulle
poltrone in segreteria o sul desiderio delle correnti di tornare a
guidare il partito. Non credo ai “caminetti”...». Le sue parole,
tuttavia, non sembrano avere una grande eco. Renzi sonda le reazioni del
Pd, ma raccoglie solo silenzi alleati e attacchi di avversari
ringalluzziti. Cerca di evocare gli insuccessi Dem seguiti alla vittoria
alle Europee del 2014, per accreditare la tesi di una battuta d’arresto
da non esagerare. Dice: «Non si deve minimizzare, è vero. Ma non si può
nemmeno drammatizzare».
Eppure l’aria è pesante. Anche la piega
unitaria che il premier cerca di dare al confronto interno viene
osservata con diffidenza. La personalizzazione sottolinea la difficoltà
rispetto alla spinta iconoclasta e ambigua del M5S. Soprattutto,
distorce il significato del referendum sul quale Palazzo Chigi ha
giocato, almeno finora, la sua sopravvivenza. Per questo Renzi parla di
un «grande momento di confronto democratico sul merito» delle riforme:
dunque, non più su di sé. Ma dovrà analizzare a fondo gli errori,
sapendo che nessuno gli farà sconti.