Avvenire.it 22.06.16
Quante bugie sulla maternità surrogata
L’utero in affitto, il caso Vendola, genitorialità e desiderio
Fanno
discutere, come è giusto che sia, le dichiarazioni di Nichi Vendola su
"Repubblica", con in braccio il bimbo nato da un utero in affitto. La
foto che accompagna l'articolo è immagine di tenerezza. E non si fa
fatica a riconoscere la ricchezza dei sentimenti che hanno inondato in
queste settimane i cuori di Ed e Nichi e delle loro famiglie. Ma può
bastare questa umana empatia a cancellare le domande che la vicenda
pone? In gioco c'è molto di più che un cambiamento di costumi. La
maternità è una delle ultime frontiere della sacralità. Sacro è ciò che è
separato, appartiene a un livello altro, non è disponibile alla
manipolazione. Il sacro mette un limite. Che non serve a mortificare la
libertà ma a preservarla. A impedirci di diventare disumani. Il tabù
dell'incesto, per esempio: presente in tutte le culture e non a caso,
riconosce un desiderio e pone un limite, necessario perché il nucleo si
apra, i figli siano sani, le relazioni non siano possesso, la società si
fondi. Vediamo ogni giorno, e i dati lo confermano in modo
agghiacciante, gli effetti disumani dell'abbattimento di questo limite.
Eliminazione del sacro e abolizione del limite coincidono. Aprendo la
strada a nuove forme di barbarie. Nell'atavica storia di
inferiorizzazione delle donne, la maternità è stata uno dei pochi luoghi
di sacralità: la donna dea, la madre terra che unica è in grado di
generare vita. Un paradigma di relazionalità estroflessa (essere
fecondata, accogliere, essere per l'altro nell'allattamento e nella
cura) che non ha eguali e che contribuisce, nella sua assoluta
singolarità e differenza, alla varietà del mondo, alla sua bellezza,
alla sua umanità. Qual è il programma di 'liberazione' oggi? Da una
parte cancellare il femminile con il 'neutro': il neutro della macchina,
della tecnica, che è la nuova imposizione maschile, dopo
l'universalismo (leggi assolutizzazione del punto di vista maschile) del
secolo scorso. Come ha scritto Ivan Illich, «Il linguaggio comune
dell'epoca industriale è contemporaneamente neutro e sessista».
Dall'altra parte, smontare l'archetipo della madre, il luogo sacro della
maternità. Dopo aver separato l'atto d'amore dalla procreazione (sulla
paternità e maternità responsabili siamo tutti d'accordo, ma non sempre
coi discorsi che le opposte fazioni mettono in campo pro o contro la
contraccezione) ora si separa la procreazione dall'atto di amore. Come
si 'fa l'amore' per soldi, si procrea per soldi. E ciò che di
assolutamente unico e incommensurabile la donna può portare a una
antropologia relazionale che valorizza le differenze è, in modo subdolo
perché travestito da liberazione, semplicemente reso irrilevante e
dunque cancellato. Il sogno, naturalmente, è riuscire a fare a meno
persino dell'utero, ne abbiamo già avuto un assaggio. Tutto in
laboratorio, a pagamento, per chi può, selezionando la perfezione.
Intanto, ci si accontenta di pagare le donne (due, perché nessuna
rivendichi: gameti e utero ben distinti), raccontandosi che sono felici
di farlo, che lo fanno per un atto di amore. Una parola che andrebbe
maneggiata con più cura. Tornando alla vicenda, la 'portatrice', come
viene chiamata, aveva già tre figli: questa gravidanza, che effetti ha
avuto su di loro? Sulla loro idea dell'amore? E di ciò che si può
comprare? Vendola mostra a chi lo ha intervistato la foto della loro
casa dicendo «vi sembrano poveri?». Forse non sono poveri, ma
un'assistente sociale e un operaio, con tre figli, negli Stati Uniti, se
solo pensano di mandarli all'università devono tirare la cinghia
parecchio. E per stessa ammissione di Vendola la gravidanza, tra
ospedale e il resto, è costata cara. La mamma, coraggiosa, ne ha avute
tre: la quarta 'surrogata' fa rientrare un po' le spese, consente di
metter via qualcosa per il futuro dei figli. Ma è sensato questo? È
davvero la festa dei diritti? E di chi? Se il mio desiderio si serve di
un altro come mezzo, non c'è libertà ma schiavitù: la mia libertà è
comprare la tua. La tua è decidere se farti comprare, e a che prezzo.
Parlare di liberazione tout court appare quantomeno discutibile.
Viaggiamo verso un mondo in cui i pochi ricchi potranno usare il resto
della popolazione come magazzino di pezzi di ricambio, parco
divertimenti (vedi turismo sessuale e pedofilia), contenitore
gestazionale. Perché questo è. Al di là delle stucchevoli retoriche,
tanto stucchevoli quanto quelle di chi si straccia le vesti. «La
gestazione per altri è la risposta della scienza al bisogno di famiglia»
è per me una frase inquietante. Certo, la scienza ha una risposta per
tutto. Anche l'eugenetica è la risposta della scienza al desiderio di
perfezione, e può esserlo anche per la produzione di sottoumani da usare
per le guerre o i lavori pesanti, ma è questo che vogliamo? Pensare che
sia quantomeno una questione su cui riflettere è essere retrogradi? La
fattibilità è la nuova religione. Ci va bene? La tecnica al posto dello
spirito. Siamo disposti ad accettare lo scambio, e sappiamo cosa
significa? Più libertà? E di chi? Poniamoci almeno le domande, laddove
la nuova, a sua volta intransigente political correctness vuole
escludere ogni dubbio a priori. Né sputi né applausi, ma domande. Perché
le cose sono un po' più complicate di come vengono presentate, come
sempre accade quando l'ideologia, di qualsiasi colore, è al lavoro.
Prendiamo la Sara del libro della Genesi, citata da Vendola come esempio
di vicenda «che infrange la Legge di Natura e dunque sposta l'accesso
alla maternità dalla natura al desiderio». Intanto la vicenda di Sara
non è così liscia, poiché l'apparente lieto fine secondo programma (la
schiava Agar resta incinta al suo posto) produce conseguenze impreviste:
l'orgoglio della schiava, la gelosia di Sara, lo smarrimento di Abramo,
l'ira di Sara contro di lui («L'offesa a me fatta ricada su di te!»,
Gen 16,5). Il frame stop sul buon esito 'secondo desiderio' lascia in
realtà in ombra molto altro, molto meno 'happy': tutte le conseguenze
sui soggetti coinvolti, al di là della soddisfazione dell'individuo
desiderante. Che nel caso di Sara, peraltro, svanisce subito. E la
pacificazione avviene solo quando la schiava è riammessa, Abramo
riconosce il figlio e, dopo dieci anni, si fa accogliente alle querce di
Mamre. Sara ride quando le viene annunciato che partorirà un figlio:
già si è scontrata con la frustrazione del desiderio. Eppure, ciò che la
tecnica (i piani umani) non realizza mai pienamente, lo spirito genera,
in un modo che sempre sorprende. L'esempio non è proprio calzante
dunque. L'accostamento al Giuseppe della fuga in Egitto è poi un altro
segno di confusione, in questa garbata ode ai tempi nuovi, che mescola
con nonchalance Papa Francesco e la scienza che soddisfa i desideri, le
sacre scritture e i paradisi dei diritti dove all'anagrafe «si scrive
quello che si vuole». Ma San Giuseppe non è padre putativo perché ha
voluto soddisfare il proprio desiderio di paternità: piuttosto, ha
accolto un piano che andava esattamente contro i propri progetti. E
certamente non senza fatica. C'è voluto un sogno, l'ascolto di una
dimensione 'altra', per far suo quello che non aveva scelto. Anche qui,
la storia è proprio diversa. Tre cose ancora, tra le tante, credo si
debbano dire. La paternità, e la maternità, non sono solo biologiche:
generare biologicamente non è condizione necessaria, e nemmeno
sufficiente (si possono, da sempre, mettere al mondo figli senza essere
veramente genitori). Questo desiderio, che è desiderio di vita, può
prendere tante forme diverse, che non sono 'surrogate' più di un utero
in affitto. Il desiderio, infatti, per definizione non è saturabile da
un oggetto. È una spinta che ci fa andare sempre oltre noi stessi. È un
orizzonte che ci attira, ma non ha un nome, almeno non uno solo. Il
desiderio di paternità e maternità non può essere 'saturato' da un
figlio, come quello di amore non può né deve voler essere riempito da
una sola persona. Sono purtroppo eclatanti le drammatiche conseguenze
che derivano dal pensarlo. Infine, non ogni desiderio, nella forma che
si ha in mente, può essere un diritto. Definito così, va sempre contro i
diritti di qualcun altro. Per esempio, contro il diritto della donna di
essere vista come una persona intera, unica e irripetibile e non solo
come un organo – acquistabile – per una funzione: come scrive Benasayag
nel suo ultimo libro (Oltre le passioni tristi, 2016) 'organi senza
corpo, perdendo di vista l'unità che fa la vita'. Il trionfo del
funzionalismo con l'aiuto della tecnica, scusatemi ma proprio fatico a
vederlo come una conquista di libertà. Almeno, prendiamoci la libertà
del dubbio.