giovedì 23 giugno 2016

Corriere 23.6.16
L’Ospedale degli Innocenti di Firenze
I bambini ci parlano
Agata e gli altri, il romanzo infinito scritto dai figli di un dio senza nome
di Paolo Di Stefano

Quante vite. E ogni vita un abbandono, ogni abbandono una ricerca nell’ignoto. L’archivio degli innocenti è un infinito intreccio di storie senza inizio, piccoli e grandi romanzi-orfanità. A volte queste storie sono segni di riconoscimento lasciati al collo o tra le fasce del neonato. Sono quegli oggetti-talismani che sarebbero serviti ai genitori, semmai, ritrovare i loro figli, magari avendo superato gli ostacoli che avevano imposto l’abbandono: una medaglietta, un crocefisso spezzato di madreperla, una mezza moneta, un corallo, un pezzo di stoffa, frammenti abbinati a nomi e cognomi (obbligatori dall’800) che venivano attribuiti agli infanti appena arrivati, anzi depositati nella pila o davanti alle grate sotto il porticato.
Alla prima fanciulla, lasciata alle ore 14 di venerdì 5 febbraio 1445, fu battezzata Agata, in onore della santa del giorno: la sua scheda, vergata con una rapida scrittura mercantile, ricorda che la piccola, avvolta in stracci rotti di «gonnellaccia bigella» (ovvero grigia) e in fasce di lana, come copricapo un pezzuola di lino, era stata portata da certa Monna Antonia e fu allattata a Castelfiorentino dalla balia Agostina. Il 6 aprile suo marito Neri la cedette ad Agnese di Montespertoli, la quale il 22 ottobre la restituì all’Ospedale come «morta e disfatta, piena di vituperio». Consegnata a una terza balia, la piccola morì il 22 dicembre.
La povera Agata è uno dei tanti neonati costretti ad affrontare viaggi disagevoli verso il baliatico in campagna: l’affidamento veniva sancito da contrattati che prevedevano un salario alla famiglia per il servizio offerto (vitto, alloggio, allattamento), ma non sempre si rispettavano le condizioni minime di igiene e di salute. E non era escluso che i passaggi si moltiplicassero per imprevisti, una gravidanza o una malattia, anche se a volte si trattava di famiglie senza scrupoli, come (si intuisce) quella di Agnese. L’archivio dell’Ospedale è un patrimonio di vite oscure, con due serie di fascicoli che coprono secoli di infanzie difficili. È l’archivista Lucia Ricciardi, con i suoi guanti bianchi di panno, a sfogliare con delicatezza gli antichi libri di pergamena e i piccoli oggetti avvolti in veline e conservati dentro scatolette di cartone.
Sono lei e un’altra Lucia, Sandri, a segnalare storie vicine e lontane. Per esempio quella di Lucia Caterina, abbandonata a un mese il 23 marzo 1446 e prestata a una famiglia benestante, per essere poi affidata a una tale Piera, nel Valdarno, da cui farà ritorno nel 1449, ormai svezzata. Il 6 gennaio 1455, annota l’ignoto scrivano degli Innocenti, Lucia viene «data» come figlia al calzolaio e mercante di pellame Maso d’Andrea, che «se lle piacerà le farà la dote». Rimane con lui fino a 24 anni e nel 1470 sarà ceduta in sposa con una dote pari a 30-40 fiorini d’oro: 160 libbre di lino, cinque camicie, due cuffie e una veste («gamurra») turchina. Nel cercare una collocazione adeguata, l’Ospedale incoraggia l’affidamento dei «nocentini» soprattutto a coppie senza figli. Lunedì 24 ottobre 1530 viene consegnato Giovanni, di cinque mesi, il cui padre è morto in guerra: erede di una modesta fortuna (due poderi), il trovatello è dato a balia per nove mesi. Firenze ha appena vissuto una grave epidemia di tifo e il 1530 è un anno di devastazione, anche per il contado, per le scorrerie delle truppe di Carlo V. Venerdì 22 marzo 1538 tre uomini, tra cui il noto mercante Francesco Rucellai, portano agli Innocenti Lisabetta, 16 mesi, orfana di entrambi i genitori, con la promessa di contribuire alle spese: sono membri della Compagnia dei Buonuomini di San Martino, una confraternita laica che si occupa di aiutare i bisognosi.
Si potrebbe continuare: passando per la storia delle gemelle Domenica e Lorenza abbandonate, con vestine colorate, calze e scarpette, la notte del 17 marzo 1629 da un padre disperato, rimasto vedovo. E soffermandosi sulla vicenda, ormai a ‘800 inoltrato, di Radegonda, probabilmente affetta da una malformazione che le procura un «difetto di lingua»: serva, cacciata per insubordinazione da un collegio, eviterà un ospizio per vecchie grazie alla proposta di nozze di un contadino che le cambia la vita a 36 anni.
Storie di misteri svelati in extremis. Il 24 maggio 1916 un prete di Certaldo, don Alessandro, scrive al direttore dell’Ospedale: sua madre, prima di morire, gli ha confessato un segreto che riguarda una «lontana parente» (non certo la «santa madre» del reverendo!) e su cui il sacerdote vorrebbe fare chiarezza. C’è di mezzo un trovatello messo al mondo una quarantina d’anni prima e ci sono le «ciarle» malevole. L’orfano, grazie all’Ospedale, viene identificato nella persona di Leonardo P., morto lasciando soli tre bambini. Famiglie spezzate, ieri come oggi.