Corriere 23.6.16
L’epopea di Roma inizia a Canne
Dopo la sconfitta inflitta da Annibale la Repubblica si compatta. Fino alla distruzione di Cartagine
di Luciano Canfora
Secondo
una intuizione che Platone nelle Leggi attribuisce a Clinia,
l’interlocutore cretese del dialogo, «ciò che la maggior parte degli
uomini chiamano pace è solo un’apparenza; in realtà tutte le città sono
per natura in uno stato permanente di guerra non dichiarata contro tutte
le altre città» (626A). Si potrebbe aggiungere a questa penetrante
osservazione dell’ultimo Platone che, nel mondo greco, anche il lessico
denota la coscienza della precarietà della pace e del carattere invece
permanente — anche se talvolta latente — della guerra. In greco infatti è
la stessa parola ( spondai ) che indica la «tregua» e la «pace»
stipulata attraverso trattati interstatali. Trattati che indicano anche
per quanti anni sarà valido l’impegno. Quanto al mondo dominato da Roma,
prima della pax Augusta il tempio di Giano, la cui apertura denotava lo
stato di guerra, era stato chiuso una sola volta! Né va dimenticata la
voce di un fiero avversario di Roma, il capo britannico Calgaco, il
quale — secondo un celebre passo dell’ Agricola di Tacito — affermò che i
Romani definiscono pace la «terra bruciata»( solitudinem ) che si
lasciano alle spalle. Una ben aspra idea di «pace», che prende atto
della brutalità e insanabilità del conflitto di potenza. È noto del
resto che anche le religioni — fino a che non si sublimano in credi
filosofici, come è da qualche decennio il caso del cristianesimo — hanno
praticato la guerra come prosecuzione della politica per dirla col
celebre motto di von Clausewitz, rinverdito ora dalla brillante
antologia del Vom Kriege edita in questi giorni da Mondadori a cura di
un appassionato polemologo come Gastone Breccia.
Ma il locus
classicus del conflitto di potenza è, nel mondo antico — al pari della
guerra peloponnesiaca (431-404 a.C.), — il conflitto interminabile e
mortale tra Roma e Cartagine. Conflitto che non si limitò ai primi due
atti del dramma, tra il 264 e il 202 a.C., ma proseguì — dopo stasi e
conflitti in altri teatri — fino alla distruzione di Cartagine (146
a.C.). Di quella vicenda, e delle ragioni dell’impossibilità di una
risoluzione non catastrofica di quel conflitto, Giovanni Brizzi è il
maggior conoscitore e più agguerrito interprete: sia sul piano
dell’interpretazione politica che degli avvenimenti militari. Dal suo
Annibale, come un’autobiografia (Rusconi 1994) all’ Annibale per la Eri
(1999, che trascrive le sue conversazioni radiofoniche nel ciclo Alle
otto della sera ), al monumentale Scipione e Annibale , la guerra per
salvare Roma (Laterza 2007), al recentissimo Canne, la sconfitta che
fece vincere Roma (il Mulino). Pur abbracciando l’intera vicenda della
guerra annibalica, dai prodromi all’epilogo, il saggio si concentra
sulla memorabile battaglia (2 agosto 216 a.C.) non solo per il suo
rilievo ma soprattutto per i suoi mancati effetti: nessun’altra città
Stato del mondo antico avrebbe retto a una sconfitta di tali
proporzioni. Non a caso è proprio sul dopo Canne che Brizzi si sofferma,
in tre paragrafi ben concatenati: Sembrava la fine ; Che cosa sconfigge
Anni bale? ; Roma dopo Canne: il «metus» . La spiegazione proposta da
Brizzi al quesito che già galvanizzò l’attenzione di Polibio è che
decisivi furono «la dedizione e lo spirito di sacrificio dei
contadini-soldati della Repubblica». «Ad animare i combattenti — egli
prosegue — sarà d’ora in avanti soprattutto una pulsione profondamente
morale». «Questo animus collettivo permetterà alla r es publica di
sostenere fino in fondo la prova titanica (…) Roma infatti giungerà,
negli anni successivi alla sconfitta, a tenere costantemente sotto le
armi da 20 a 25 legioni (ne avrà 30 quattro secoli dopo quando i suoi
confini andranno dalla Britannia all’Eufrate!)» (p. 152). E, soggiunge
Brizzi, contribuì, come elemento non secondario, la compattezza degli
alleati, i fedelissimi socii Latini nominis , cioè dotati della
cittadinanza di diritto latino. Tale inaudita capacità di colmare i
vuoti dell’esercito e di lanciare sempre nuove legioni
«nell’inestinguibile fornace di una guerra infinita» logorerà Annibale,
stretto sempre più nell’area di Crotone, e alla fine richiamato in
patria per effetto dell’imprevisto Blitzkrieg di Scipione in Africa.
Mossa strategica vincente quella del poco più che trentenne rampollo
dell’aristocrazia romana: mossa degna dell’audacia cesariana nel corso
della guerra civile che dilanierà l’impero un secolo e mezzo più tardi.
Ma
forse, se è ben vero che i contadini-soldati restarono in piedi a
difendere la Repubblica, è giusto porsi la questione: perché lo fecero?
La risposta è quella implicita, ma chiara, nel racconto polibiano. Non è
per caso infatti che Polibio, dopo aver narrato di Canne (libro III),
prima di riprendere il filo della storia di Roma (libro VII), faccia
pausa nel racconto e inserisca un intero libro (il VI) sugli ordinamenti
politici e militari romani. Perché egli ravvisa in quegli ordinamenti,
capaci di compenetrare in modo originale ed equilibrato le tre forme di
governo nel cui implacabile scontro s’erano invece logorate le città
greche per secoli, la ragione vera della compattezza della Repubblica:
anche nel momento estremo della sconfitta. Non è un caso che
Machiavelli, giovandosi di versioni latine, abbia posto proprio quei
capitoli polibiani sulla «costituzione mista» a fondamento della sua
opera più pensata e più «repubblicana», i Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio .