Avvenire.it 23.06.16
Pomodoro, l’arte è un labirinto
di L. Marsiglia
«Alcune
mattine, anche se so di essere sveglio, mi sembra di continuare a
sognare e di abitare un sogno»: in questo modo esordisce Arnaldo
Pomodoro nel circoscrivere - e descrivere - una sua giornata tipo, con
il pensiero diretto fin dall'inizio alle opere che vorrebbe realizzare e
a quelle che attendono di essere ancora concluse, come il magniloquente
Ingresso nel labirinto, work in progress all'interno dell'ex sede della
fondazione a lui intitolata in via Solari a Milano, che ospita oggi la
casa di moda delle sorelle Fendi. Opere rimaste incompiute anche perché
la scultura, specie i bronzi di grandi dimensioni e a differenza del
modus operandi proprio della pittura, presenta dei costi notevoli di
esecuzione ma, a parte tutto ciò, Pomodoro vive, sente in maniera
tattile, respira e sogna l'arte, portandola a definizione tanto nella
concreta realtà che con queste visioni oniriche a occhi aperti. E, per
lo scultore che nutre una passione sconfinata verso il teatro,
l'allusione puntuale e il rimando più congeniale è senz'altro a La vida
es sueño di Pedro Calderón de la Barca, autore culto del Seicento, il
Siglo de Oro, spagnolo. I novant'anni di Arnaldo, nato il 23 giugno
1926, rappresentano davvero un'occasione imperdibile per un viaggio,
grazie ai molti ricordi arricchiti di diversi aneddoti personali,
attraverso l'arte non solo italiana dall'ultimo dopoguerra a oggi:
Pomodoro è infatti tra gli scultori più conosciuti ed emblematici della
seconda metà del Secolo breve. Così, nello studio milanese in zona
Navigli, circondati dalle sue sculture, vengono evocati vari luoghi
impressi indelebilmente nella memoria del maestro: le due cittadine
consonanti di Morciano e Orciano, una in Romagna e l'altra nelle Marche,
dove ha trascorso l'infanzia; e poi Rimini, Pesaro, Milano, l'arrivo in
America nella veste di artist in residence e l'insegnamento nel 1966
alla Stanford University della California. Oltre a figure di primo piano
come Lucio Fontana che, durante il loro primo incontro avvenuto negli
anni '50 nel capoluogo lombardo, lodò non solo le opere plastiche ma
l'entusiasmo di quel giovane scultore, spronandolo a proseguire nella
ricerca artistica e, conseguentemente, di se stesso. I gesti delle mani,
insieme allo sguardo mobile e celeste, accompagnano gli avvenimenti
richiamati dalla voce pacata di Pomodoro: «Considero la mia adolescenza
un periodo bello e mi rivedo come un ragazzino tranquillo e introverso,
che amava tantissimo la libertà. Due donne sono state molto importanti
nella mia vita: mia madre e mia nonna paterna, che prima di sposare il
nonno faceva di co- gnome Spadoni e teneva sopra il caminetto di casa,
accanto al crocifisso, i ritratti di Cavour e Garibaldi. Sono nato a
Morciano di Romagna, ma la mia famiglia si spostò a Orciano, dove sono
cresciuto, un altro piccolo centro distante dal primo appena nove
chilometri però già nelle Marche. La ragione del trasferimento era
dovuta al nonno, un dottore veterinario spedito là in missione. Ero
dunque un ragazzino piuttosto solitario e visionario, il quale pensava e
scorgeva gli oggetti in maniera differente rispetto ai coetanei, con
cui giocava a volte sulla riva del fiume Conca. L'argilla che si trovava
ai bordi di quel fiume immenso e maestoso era meravigliosa, così fine e
pulita da rispondere immediatamente al tocco delle dita. Con essa e
senza il minimo sforzo da parte mia, grazie alla predisposizione
naturale, creavo delle forme singolari in confronto a quelle dei miei
occasionali compagni di giochi. Mentre loro abbozzavano bene o male una
casa, io plasmavo una casa che in realtà non la ricordava affatto, una
casa fantastica, kafkiana». La famiglia non era ricca ma benestante e,
tenuto conto che Orciano si inerpica sopra una collina, l'abitazione dei
Pomodoro era disposta su tre piani in pendenza, con altrettante uscite
ripartite sui vari dislivelli. «E questo labirinto di scale finiva nel
punto più basso, la cantina, che conteneva delle gigantesche botti di
vino - prosegue Arnaldo. - Un'immagine che sarebbe piaciuta a Federico
Fellini, col quale feci agli inizi degli anni '90 un lunghissimo viaggio
fino in Giappone, per ritirare a Tokyo il Praemium imperiale assegnato
per la prima volta a due italiani, a lui nell'ambito della regia
cinematografica e a me per la scultura». C'è un'altra località che
accomuna il vissuto di Fellini e di Pomodoro: si tratta di Rimini, dove
quest'ultimo ha studiato. «Volevo iscrivermi all'istituto d'arte, i miei
genitori si opposero affermando che non avevano soldi per farmi fare
l'artista: dovevo quindi prendere il diploma da geometra e mettermi a
lavorare racconta lo scultore. - Comunque avevo già maturato
l'intenzione di proseguire gli studi, scegliendo architettura e
scenografia. A Rimini abitava la famiglia di mia madre, legata al mondo
dell'artigianato di alta qualità e specializzata in scarpe fatte su
misura per i notabili del posto. È da questo momento che ho cominciato a
cercare me stesso». Subito dopo il diploma, trova un impiego nel genio
civile: è l'epoca della ricostruzione degli edifici distrutti dai
bombardamenti. A Pesaro, realizza per il teatro Rossini le scenografie
dell'Oreste di Vittorio Alfieri. E poi Milano, dove Arnaldo si
stabilisce nel 1953 insieme al fratello Giò, anch'egli scultore,
scomparso nel 2002. «Mi ricordo che a Orciano dedicai a una signora
sfollata per la guerra - riprende Pomodoro - una scultura ispirata al
Castello di Kafka e formata da pareti che celavano la scala, ricalcando
l'idea del labirinto. Perché mi sento sempre chiuso in un labirinto, da
cui non si esce. E i segni sulle mie sculture riflettono questa idea.
Alcuni dei lavori che ho iniziato sono incompleti e da finire, ma non so
se li terminerò. Spesso purtroppo non calcolo i costi, così mi devo
fermare. Come è accaduto per Ingresso nel labirinto di via Solari. Ma io
ci penso ogni mattina e dico a me stesso che se la vita è così generosa
e mi lascia un altro po' di tempo, ora sarei pronto ad arrivare al
blocco conclusivo». Il labirinto di un grande scultore contemporaneo il
quale, al pari di un solitario eroe di Borges, ricerca la via di uscita
dentro di sé.