Avvenire.it 22.06.16
Intervista ad Alberto Oliverio
Bioetica, il senso del limite
di A. Zuccari
Qualcosa
sta cambiando, qualcosa non cambierà mai. «Non ci sono differenze
sostanziali tra il nostro cervello e quello di un antico greco – spiega
lo psicobiologo Alberto Oliverio –, a mutare è semmai la cosiddetta
"mente estesa", ossia la capacità di proiettare al di fuori della
scatola cranica una serie di abilità che vanno dall'articolazione della
parola alla scrittura. È il piano sul quale le novità si stanno
susseguendo con una rapidità apparentemente vertiginosa, ma non dobbiamo
farci illusioni: per un'eventuale trasformazione del cervello umano
occorreranno secoli, se non addirittura millenni». Studioso di levatura
internazionale e autore di numerosi saggi (tra cui Immaginazione e
memoria, Mondadori Università e L'arte di ricordare, Rizzoli, entrambi
del 2013), Oliverio interviene nel dibattito sui cambiamenti culturali e
antropologici promosso da "Avvenire", si è attraverso una serie di
forum, l'ultimo dei quali ha visto la partecipazione di qualificati
esponenti della comunità scientifica. «È vero – ammette Oliverio –, il
mondo della ricerca finisce spesso sul banco degli imputati, anche al di
là delle sue responsabilità effettive. In ogni momento storico sempre
esistite persone refrattarie al cambiamento. Questa tendenza al
conservatorismo, del resto, appartiene all'essere umano fin
dall'infanzia, unità però a una continua ricerca di novità. In una fase
tanto delicata come l'attuale, bisogna sforzarsi più che mai di trovare
un punto di equilibrio tra queste tensioni contrapposte. Dal punto di
vista pratico, in effetti, è quello che sta già succedendo. Pochi, anche
tra quanti lamentano le fughe in avanti della scienza, sarebbero
disposti a rinunciare alla velocità nelle comunicazioni e nei trasporti,
garantita dallo sviluppo tecnologico». Nessuna preoccupazione in vista,
quindi? «Al contrario – ribatte Oliverio –, ci sono ambiti nei quali la
cautela rimane più che opportuna, primo fra tutti quello delle
tecnologie della riproduzione. Il rischio speculare rispetto alla
resistenza alla trasformazione è infatti costituito dall'accettazione
passiva di qualsiasi cambiamento, in una sorta di innamoramento per il
nuovo che spesso nasconde un'assoluta mancanza di riflessione. Anche
questo atteggiamento deriva rapidità con cui le innovazioni si
susseguono e almeno una parte delle resistenze può essere ascritta al
semplice fatto che il pensiero necessita di tempi più lunghi. Ma
invocare un ragionamento più approfondito non comporta, di per sé, il
rifiuto del progresso. In generale, non mi pare che nella nostra società
sia presente un movimento antiscientifico propriamente inteso». Tra gli
argomenti che andrebbero affrontati con maggior attenzione spicca,
anche per Oliverio, quello delle conseguenze indotte dalle nuove
pratiche tecnologiche, specie in amsono bito riproduttivo. «Si sta
radicando il pregiudizio per cui non esiste problema che la scienza non
possa risolvere. Nella realtà la situazione è ben diversa e in alcuni
casi sarebbe già molto riuscire a gestire questioni di particolare
complessità, spesso dolorose, ma comunque ineliminabili dall'orizzonte
dell'esperienza umana. La malattia, la morte, la sterilità continuano a
costituire limiti oggettivi. Anche quando ci sembra di riuscire a
varcarli, non possiamo evitare di fare i conti con le conseguenze che
questo superamento comporta. Prendiamo l'esemdalla pio di una coppia,
magari già avanti negli anni, che voglia e ottenga un figlio a ogni
costo. Il desiderio dei genitori viene soddisfatto, ma a quale prezzo
per il bambino? Quali saranno, in futuro, i sentimenti di una
generazione che rischia di essere privata del rapporto con le proprie
origini biologiche? ». Un ruolo rilevante, in questo e in altri
contesti, è giocato dal mutato rapporto con il tempo. «L'impazienza è un
fattore ormai impossibile da trascurare – sottolinea Oliverio –. La
rapidità pressoché istantanea dei media ha soppiantato i ritmi lenti
della natura, con conseguenze già riscontrabili in sede educativa. Si
punta moltissimo sul potenziamento delle abilità, dimenticando che
queste non esauriscono la ricchezza dell'essere umano. Noi tutti siamo
composti di memoria e di esperienza: di quello che abbiamo vissuto dal
punto di vista emotivo, oltre che di quanto abbiamo imparato a fare. Nel
nostro agire è sempre presente una componente inconsapevole che
impedisce di identificare il funzionamento del cervello con quello di
qualsiasi altra macchina razionale o computazionale, sia pure
avanzatissima. Anche chi non nutre una visione spirituale dell'esistenza
è oggi portato a constatare che le spiegazione suggerite dalle
neuroscienze non sono e, per quanto riusciamo a intuire, non potranno
mai essere del tutto soddisfacenti. Certo, stiamo facendo grandi
progressi nello studio del cervello. Esistono già forme di potenziamento
cognitivo, talvolta discutibili, e la sperimentazione per la cura del
Parkinson è in una fase significativa. Ma questo non autorizza il
semplicismo di quanti sostengono che, d'ora in poi, tutto sarà
riparabile, morte compresa. Siamo esseri biologici mortali, l'esito
ultimo della nostra esistenza è e rimarrà sempre al di fuori della
nostra portata».