Corriere 22.6.16
D’Alema: Renzi rottama il Pd
Il referendum? Io voterò no»
L’ex premier: era fatta meglio la riforma Berlusconi
E l’Italicum è incostituzionale
La segreteria deve andare a un altro
intervista di Aldo Cazzullo
Massimo
D’Alema chiede a Renzi di lasciare la guida del Pd: «Al referendum
voterò No — dice al Corriere —. La riforma è peggiore di quella di
Berlusconi. E l’Italicum è incostituzionale. Se Matteo Renzi non cambia,
rottama il Pd».
Massimo D’Alema, alla fine lei come ha votato?
«Come
sempre: secondo le indicazioni del partito. Certo è un po’ buffo che il
Pd vinca a Prati e Parioli e perda a Cinecittà e Pietralata».
Come valuta il voto?
«La
sconfitta va molto al di là di specifici eventi locali. È una tendenza
generalizzata: perdiamo Torino, Trieste, Pordenone, Grosseto, Novara,
Benevento, eccetera. Poi ci sono situazioni come Roma, dove la sconfitta
assume dimensioni di disastro. Qui, come a Napoli, ha pesato una vera e
propria disgregazione del partito».
Serve un segretario diverso dal premier?
«Sì.
Serve una figura che si occupi del Pd a tempo pieno. E serve una
direzione collegiale. Il partito è stato volutamente lasciato senza
guida. Lo si ritiene non importante oppure si scarica su di esso la
colpa quando le elezioni vanno male. È tutto puntato sul leader e il suo
entourage, neanche collaboratori. Renzi non convoca la segreteria, che
pure è un organo totalmente omogeneo. Si riunisce solo con un gruppo di
suoi amici».
Renzi è il segretario che ha indetto più direzioni.
«Ha
mai seguito una direzione del Pd? Sono momenti di propaganda. Il capo
fa lunghi discorsi, cui seguono brevi dichiarazioni di dissenso; poi
parlano una cinquantina di persone che insultano quelli che hanno
dissentito. Non c’è ascolto, non c’è confronto. Non esiste la
possibilità di trovare convergenze o accordi».
Renzi ha perso la sintonia con la base?
«Con
la base e con il Paese. Una parte molto grande dell’elettorato di
sinistra non si riconosce nel Pd, non lo sente come proprio, non si
mobilita. Ho fatto campagna elettorale, là dove mi hanno chiamato. Ho
trovato anche qualcuno che diceva: non dovete disturbare Renzi, ma anche
tanti con un sentimento di avversione. Lui non si è limitato a
rottamare un gruppo dirigente; sta rottamando alcuni milioni di
elettori».
Addirittura?
«Nei ballottaggi si è votato in 126
comuni su 8 mila. I nostri candidati — non dico il partito; i candidati,
comprese le liste civiche — rispetto alle precedenti comunali hanno
perso un milione di voti».
Sono calati i votanti.
«Sono
calati soprattutto i nostri votanti. Più della metà degli astenuti sono
elettori Pd. Un tempo, quando cresceva l’astensione, vincevamo: perché
avevamo un elettorato attivo, per spirito civico e per il legame con il
partito. Oggi questo legame si è spezzato».
A Milano il Pd tiene.
«Sì,
ma non perché Renzi ha scelto Sala; perché Pisapia si è battuto come un
leone per coprirlo a sinistra. Ha fatto pure un’intervista al Corriere
dal titolo “non si vota su Renzi”. Evidentemente il premier non era
percepito come un valore aggiunto, anzi».
Lo sfondamento al centro non c’è stato.
«Pisapia,
candidato della sinistra radicale, al ballottaggio prese il 55,11% e
365 mila voti. Sala ne ha avuti 264 mila: oltre 100 mila in meno. Come
sfondamento al centro, non è male».
Che effetto le ha fatto la sconfitta di Fassino?
«Mi
è spiaciuto moltissimo. A Piero mi lega un rapporto personale di alcuni
decenni. Non meritava questa sconfitta. E non meritava di sentirsi
dire, dopo aver sostenuto Renzi in tutti i modi — anche troppo, come
presidente dell’Anci — che “abbiamo perso perché avevamo volti vecchi”.
Come se fosse un’analisi che ha un briciolo di sensatezza. Mastella non
ha vinto perché è un volto nuovo; Dipiazza neppure. Il giovane Giachetti
non è andato benissimo».
Cosa dovrebbe fare Renzi?
«Renzi
dovrebbe cambiare. Questo risultato mette in discussione sia il rapporto
tra il Pd, il suo elettorato e la società italiana, sia la politica del
governo. E mette in discussione il modo in cui Renzi esercita tutti e
due i ruoli. Meriterebbe da parte sua riflessioni molto diverse da
quelle, sconcertanti, che ha affidato al Corriere la notte del voto».
Renzi vuole «mettere da parte la vecchia guardia».
«Renzi,
com’è noto, è convinto di essere il Blair italiano. Ma Blair si
circondò del meglio del suo partito, non di un gruppetto di fedelissimi.
Blair prese il principale avversario, Gordon Brown, e lo fece
cancelliere dello scacchiere. Volle ministri Robin Cook e Jack Straw,
figure storiche del laburismo. Ma Blair era intelligente: capiva che
doveva mettere insieme forze tradizionali con forze nuove in grado di
attrarre. Se per attrarre 5 ne cacci 10, come si sta facendo, il
bilancio è meno 5».
Renzi è in grado di cambiare?
«La
speranza è l’ultima a morire, ma non mi pare una persona orientata a
tenere conto degli altri e neanche della realtà; neanche di quelle più
prossime, visto che abbiamo perso a Sesto Fiorentino. Eppure sarebbe
necessario un cambio di indirizzo nell’azione di governo, e anche un
cambio di stile. Compreso il rispetto che dovrebbe essere dovuto a una
classe dirigente che ha vinto le elezioni e ha fatto cose importanti per
il Paese: l’euro, le grandi privatizzazioni, la legge elettorale
maggioritaria uninominale; non quella robaccia che ci viene proposta
adesso».
La crescita non era certo brillante neppure ai tempi dell’Ulivo.
«Il
Paese nella seconda metà degli anni 90 è cresciuto. Mi si dirà: non
c’erano gli effetti devastanti della crisi globale. Ma oggi, al di là
dei proclami, siamo comunque agli ultimi posti della seppur debole
ripresa europea. La chiave non sono le mance di tipo elettoralistico;
dovrebbero essere gli investimenti pubblici, la cui riduzione prosegue. E
le maggiori mance sono andate a proprietari di case di lusso e come
incentivi agli imprenditori. Si è fatto molto poco per i lavoratori e
nulla per i vecchi e nuovi poveri. Infatti non ci votano».
A Roma il commissario del Pd è un suo allievo, Orfini.
«Sono
pronto all’autocritica: diciamo che l’ho allevato male... Da anni il Pd
non mi chiede nulla, e all’improvviso apprendo dai giornali che dovrei
fare un appello alla vigilia del voto per una causa palesemente
disperata. E addirittura si riscopre che sono un ‘fondatore del Pd’».
Si riferisce alle polemiche di questi giorni?
«A
parte gli agguati giornalistici concertati tra alcuni dirigenti del mio
partito e la stampa amica, non c’era mai stata una pressione sui mezzi
di informazione così fastidiosa come quella che esercita questo governo.
Neppure ai tempi di Berlusconi. Ora alimentano sulla rete una campagna
sui vecchi che vogliono reimpadronirsi del partito…».
Perché, non è vero?
«Non
voglio impadronirmi di nulla: bisogna essere matti ad andare a gestire
il Pd per come l’hanno ridotto. Sono stato felicemente riconfermato alla
presidenza della Feps. Faccio un lavoro che amo. Sono solo preoccupato
che questo gruppo di personaggi con alla testa Renzi porti la sinistra e
il Paese in un vicolo cieco: se non cambiamo radicalmente direzione, mi
pare segnata la via che conduce al ritorno della destra, o all’arrivo
dei 5 Stelle».
Ci sarà una scissione?
«È un problema da
porre ad altri. Non ho l’età per fondare nuovi partiti, ma mi resta
l’energia per fare lotta politica. E questo non mi può essere impedito
da nessuno».
L’Italicum è incostituzionale?
«Secondo me sì.
Non sono un giudice costituzionale, ma la sentenza della Corte sollevava
due questioni: il diritto del cittadino di scegliere il proprio
rappresentante; e il carattere distorsivo del premio di maggioranza,
quando è troppo grande. La risposta dell’Italicum è molto parziale e
deludente. I sistemi ultramaggioritari funzionano quando i poli sono
due. Ma quando sono tre, o quattro, perché nessuno può escludere che
nasca un polo alla sinistra di Renzi, il ballottaggio diventa una
roulette in cui una forza che al primo turno ha preso il 25% si ritrova
con la maggioranza assoluta dei parlamentari; per giunta scelti dal
capo. Occorre un ripensamento profondo di questo sistema».
Lei come voterà al referendum di ottobre?
«Voterò no. Troverò il modo di spiegare le ragioni di merito».
Ce ne dia un assaggio.
«Non
sono molto diverse da quelle per cui votai no, nel 2006, alla riforma
di Berlusconi. Che per certi aspetti era fatta meglio. Anche quella
prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione dei
parlamentari. Ma riduceva anche i deputati. E stabiliva l’elezione
diretta dei senatori; non faceva del Senato un dopolavoro. Sarebbe stato
meglio abolirlo».
Ma se vince il No si apre una crisi di sistema.
«E perché? Quando fu bocciata la riforma Berlusconi non si aprì alcuna crisi».
Si era appena insediato un governo di centrosinistra. Stavolta, se salta la riforma, salta il governo .
«Non
ho mai sostenuto che Renzi debba dimettersi. Certo, se lui insistesse,
si dovrebbe costituire un nuovo governo, dato che servirebbe una nuova
legge elettorale: votare per la Camera con un sistema ultramaggioritario
e per il Senato con il proporzionale puro sarebbe una follia».
Renzi non dovrebbe dimettersi neppure se perde a ottobre?
«È
stato un gravissimo errore personalizzare in chiave plebiscitaria il
referendum, che dovrebbe essere un pronunciamento dei cittadini libero
da qualsiasi ricatto. Costruire una campagna sulla paura può generare un
effetto controproducente, inasprire l’irritazione già evidente degli
elettori. Inviterei Renzi a dire che resta comunque; proprio come dopo
la sconfitta alle amministrative».
Giorgio Napolitano ammonisce che se vince il No l’Italia si dimostra irriformabile.
«In
questi anni sono state fatte 15 riforme costituzionali, dal giusto
processo al pareggio di bilancio; oltre a leggi di rango costituzionale
che hanno trasformato il Paese, come l’elezione diretta dei sindaci.
Alcune riforme, come quella del titolo V, si sono rivelate sbagliate. E
una riforma sbagliata produce più danni di nessuna riforma. Questa
peggiora le cose, perché riduce gli elementi di controllo democratico e —
combinata con l’Italicum — trasforma il Parlamento nella falange di un
capo ».