Corriere 21.6.16
Noi vincitori senza vittorie
di Paolo Mieli
Benché Sconfitta a custoza e a lissa l’italia ottenne il veneto nel 1866
A
i primi di gennaio del 1866 l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe
inaugurò l’anno profetizzando all’ambasciatore inglese John Bloomfield
che, stando alle sue sensazioni, quei dodici mesi sarebbero trascorsi
«tranquillamente e pacificamente». Un annuncio incauto dal momento che
di lì a breve l’Austria sarebbe entrata in conflitto con la Prussia e
avrebbe subito una sonora sconfitta. Il nostro Paese, che pure era
alleato della Prussia, di sconfitte ne subì due, anche se in qualche
modo verrà considerato tra i vincitori di quel conflitto, come ben
spiega il libro di Hubert Heyriès, Italia 1866. Storia di una guerra
perduta e vinta , che sta per essere pubblicato dal Mulino. Nella Terza
guerra d’indipendenza l’Italia si segnalò, dunque, per due batoste: una
di terra (Custoza, 24 giugno), una in mare (Lissa, 20 luglio). Però,
essendo alleata della Prussia che aveva umiliato gli austriaci a Sadowa,
a dispetto della catastrofe militare ottenne il Veneto. Regione che
però a Vittorio Emanuele II fu consegnata da Napoleone III, il quale
l’aveva ricevuta dall’Austria a compenso della neutralità francese. Per
l’Italia, un autentico sfregio.
All’origine ci fu da parte
italiana un eccesso di ottimismo per i successi conseguiti dal nostro
esercito al Sud nella lotta al brigantaggio che l’autore non esita a
definire «la prima guerra civile dell’Italia». A metà degli anni
Sessanta, scrive Heyriès, si nutriva nei vertici nazionali l’illusione
che l’esercito, reso agguerrito dai combattimenti contro le «forze
reazionarie antiunitarie» del Mezzogiorno, sarebbe stato in grado di
«misurarsi con l’Austria» per conquistare il Veneto, «in attesa di
risolvere poi la questione romana». L’alto comando e il personale
politico «non si rendevano conto che le azioni di guerriglia, che
impiegavano effettivi ridotti contro un nemico male armato, erano
totalmente diverse dalle forme della guerra moderna contro l’Austria,
ove sarebbero state mobilitate centinaia di migliaia di uomini contro
uno dei più importanti eserciti europei». L’Italia, secondo Edmondo De
Amicis, che vi partecipò, si limitò a considerare la guerra come «giusta
e santa, ch’era necessità e dovere di farla».
Personaggio
centrale di questa vicenda sarà il generale Alfonso Ferrero della
Marmora, già presidente del Consiglio dal settembre 1864 alla metà di
giugno del 1866, quando era iniziata la guerra e ne aveva assunto la
direzione, lasciando a Bettino Ricasoli la guida politica del Paese. Per
restare alla testa del governo La Marmora aveva accettato consistenti
tagli alle spese militari (drastica fu la riduzione dell’acquisto di
cavalli e muli) e questo, assieme al fatto che buona parte dell’esercito
— ottantamila soldati — era ancora dislocato al Sud per i motivi già
ricordati, fu tra le cause per cui dopo soli quattro giorni di guerra
l’Italia subì il primo umiliante rovescio. Il consigliere militare
dell’ambasciata prussiana Theodor von Bernhardi descrisse La Marmora
come «uomo mediocremente intelligente», cresciuto «nello stretto ambito
di uno Stato di terzo livello». Grande ammiratore di Napoleone III, La
Marmora considerava la guerra vinta in partenza al punto di prefigurare
uno «smembramento» dell’Impero austriaco. Avrebbe desiderato condurre lo
scontro militare in modo blando, cosicché l’Austria non fosse costretta
a distrarre truppe dal fronte lungo il quale combatteva con la Prussia.
La Prussia ne sarebbe uscita fiaccata e ciò sarebbe stato negli
interessi francesi che, a dispetto degli accordi con Berlino,
continuavano a stare a cuore al nostro generale. L’intesa
italo-prussiana, spiega Heyriès, non fu così scontata quanto
un’interpretazione deterministica della storia potrebbe far pensare:
«Molte reticenze, sospetti e incomprensioni reciproche indebolirono fin
dall’inizio un trattato di alleanza che legava i due Paesi sia sul piano
dell’offesa che della difesa».
La guerra scoppiò il 20 giugno del
1866 in un’atmosfera di «elettrizzante entusiasmo», anche per la
fiducia italiana nella superiorità militare per terra e sulle acque
adriatiche. Una superiorità numerica, beninteso. Data la stagione,
l’Italia ritenne di risparmiare sulle coperte, ma le notti nella pianura
del Po erano assai umide e molti soldati si svegliarono con la febbre.
Di giorno faceva un caldo insopportabile. Presto mancò il pane che
arrivava ammuffito, lo si sostituì con biscotti che però giungevano
sbriciolati, la carne era andata a male, il formaggio era in via di
deperimento e il vino si era trasformato in aceto. In mancanza di avena,
ai cavalli fu dato del fieno fresco, che ne fece ammalare un bel po’.
Alla battaglia ai piedi delle colline di Custoza il 24 giugno molti
soldati si presentarono digiuni o, peggio, intossicati. La guardia
nazionale dava di sé l’immagine di un’accolita «pietosa»: «Erano per
metà in divisa, parte in giacchetta, parte in marsina; alcuni in manica
di camicia, altri a piedi scalzi, qualche soprabito, qualche cappello a
cilindro compiva il quadro». Un battaglione di Bari, si legge in un
rapporto militare, scioccò la popolazione per lo «stato lurido
dell’equipaggiamento», la «sudiceria delle persone» e la «cattiva
composizione del personale di bassa forza, il quale conteneva individui
noti sfavorevolmente come dediti al furto».
Secondo Angelo Umiltà e
Giovanni Cadolini — che di quei soldati scrissero a ridosso degli
eventi — molti cercarono di fuggire, ad altri cedettero i nervi, altri
si diedero al furto persino delle «scodelle loro distribuite per la
minestra». Ma all’origine del disastro furono soprattutto i generali. La
Marmora contrapposto a Enrico Cialdini (che non volle con sé il
principe Umberto): li accomunava solo l’antipatia nei confronti del re,
peraltro ricambiata. La Marmora detestava anche Giuseppe Govone («un
professorino rompiscatole»). Enrico Della Rocca, apprezzato dal sovrano
ma amareggiato per essere rimasto un generale di corpo d’armata, li
criticava tutti. Giovanni Durando aveva fama di non essere precisamente
un portafortuna. Agostino Petitti (incaricato di «impiantare un embrione
di quartier generale a Piacenza») fu ribattezzato sprezzantemente
«embrione».
Si distinsero per meriti militari i granatieri di
Sardegna che, sul monte Croce, nel corso di combattimenti contro brigate
austriache due volte più numerose, ebbero la meglio. Tra loro il
capitano Luigi Pelloux, destinato a diventare presidente del Consiglio
nella crisi di fine secolo che lo avrebbe travolto. La Marmora, appena
le cose presero ad andar male, crollò psicologicamente: «Che disfatta!
Che catastrofe! Nemmeno nel ’49», lo si sentì mormorare. Il generale
Govone avrebbe potuto vincere, ma nessuno lo aiutò. Circostanza che
restò incomprensibile per il generale prussiano Helmuth von Moltke il
quale, in merito, giunse a chiedere chiarimenti allo stato maggiore
italiano. La Marmora lì per lì pensò al suicidio. Poi dispose che i
soldati stravolti e con le uniformi in brandelli si ritirassero. «Se ne
ebbe una tale vergogna», scrive Heyriès, «che venne dato l’ordine di
attraversare in silenzio i villaggi per non attirare l’attenzione degli
abitanti».
Ai primi di luglio giunse la notizia dell’inaspettata e
travolgente vittoria prussiana a Sadowa e a quel punto l’Italia si
sentì costretta a cercare un proprio trionfo riparatore. Il re si
rivolse alla Marina all’interno della quale, però, non si erano ancora
ben amalgamate la piemontese, dove prevaleva il vapore, e quella
napoletana, tutta improntata sull’uso della vela. Sotto la guida del
recalcitrante Carlo Pellion di Persano alcune navi italiane uscirono dal
porto di Ancona e immediatamente si abbordarono l’un l’altra, causando
reciproche avarie. Persano — che si era autopromosso ammiraglio nel 1862
ai tempi in cui era ministro della Marina — aveva innescato un circuito
di odio con Giovanni Battista Albini e con il contrammiraglio
napoletano Giovanni Vacca. Un uomo di quest’ultimo, Tommaso Bucchia, si
spinse ad accusare Persano di vigliaccheria in una lettera al ministro
della Marina Agostino Depretis. E quando Depretis lo minacciò di
destituzione nel caso fosse rimasto inerte, Persano decise di lanciare
la sfida su Lissa. Tutto sembrava mettersi in maniera favorevole alla
flotta italiana e invece, anche per mancanza di fortuna, fu una seconda
catastrofe. Gli austriaci lamentarono la morte di 123 marinai. Gli
italiani ne persero 638; 376 sul «Re d’Italia», 194 sulla «Palestro». Un
disastro.
L’ Italia si riscattò (relativamente) solo il 21 luglio
con la vittoria di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca. I garibaldini erano
quasi tre volte più numerosi degli austriaci. E anche il numero dei loro
caduti fu assai più alto di quello dei nemici. Anche loro patirono per
le carenze nell’equipaggiamento: scarpe inutilizzabili e soprattutto
assenza di borracce («al minimo corso d’acqua, nasceva la più grande
confusione, l’ordine si spezzava e tutti si fermavano a bere»). Nessun
mantello, per cui anche qui freddo, pioggia e febbre. E le camicie rosse
li rendevano per gli austriaci «un tiro a segno tra gli alberi» (così
Fedrigo Bossi Fedrigotti). Il loro addestramento lasciava a desiderare: a
Monte Suello lo stesso Garibaldi fu ferito da uno dei suoi e vennero
uccisi alcuni bersaglieri le cui uniformi grigie furono confuse con
quelle dei cacciatori tirolesi. Ma almeno quella battaglia fu vinta,
anche se Garibaldi dovette rassegnarsi a non procedere oltre. E ad
Alfonso La Marmora che gli aveva intimato l’alt, rispose «Obbedisco!».
All’improvviso era giunta l’ora dell’armistizio e della pace.
La
delusione italiana fu grande. La ritirata, annota Heyriès, «prese il
gusto amaro della sconfitta mascherata, della disfatta morale». Poi i
soldati italiani, passati sotto la guida di Cialdini che in agosto aveva
preso il posto di La Marmora, cercarono una rivincita a Palermo. Qui il
generale Raffaele Cadorna fu incaricato di domare una rivolta che mise a
sacco la città dal 16 al 22 settembre. Giunsero via mare in Sicilia 24
mila uomini e l’ordine fu ristabilito con modalità spietate. Così
ironizzò a fine settembre il giornale satirico «Il Buonumore»: «Grrrande
vittoria! La flotta è sbarcata a Palermo. Nessuna nave sfiancata o
affondata. Questo strano fenomeno viene spiegato dall’assenza
dell’ammiraglio Persano, e anche un po’ dall’assenza di navi nemiche».
P
ersano era diventato il capro espiatorio di quella bruciante sconfitta.
Il principe Eugenio gli suggerì di sollecitare l’istituzione di un
consiglio di guerra per mettere a tacere insinuazioni e accuse contro di
lui. Persano accettò, ma il gesto fu inteso quasi come un’ammissione di
colpa anche perché l’ammiraglio, essendo dal 1865 senatore, avrebbe
potuto essere giudicato solo dai suoi pari e perciò fu subito chiaro che
quel consiglio non sarebbe mai stato riunito. A lui pensò il Senato,
che lo mise sotto processo per «viltà innanzi al nemico», lo trasse in
arresto e, nel giro di quindici giorni con dodici udienze pubbliche, lo
condannò alle dimissioni, alla perdita del grado di ammiraglio e a farsi
carico delle spese di giudizio (ma 163 senatori su 273 non
parteciparono al voto).
Gli altri protagonisti della sfortunata
battaglia di Lissa — Augusto Ribotty, Simone de Saint-Bon, Guglielmo
Acton — uscirono illesi dalla tempesta che aveva travolto Persano e,
sottolinea con perfidia Heyriès, «divennero i padri della moderna Marina
italiana». Pure La Marmora se la cavò senza essere portato in giudizio,
anche se la stampa democratica lo ribattezzò «Alfonso dalle gambe
lunghe» e lo descrisse da quel momento come un incompetente pusillanime.
Lui cercò di rifarsi attaccando pubblicamente Cialdini, il quale gli
rispose rendendo pubblici alcuni suoi telegrammi dei giorni di Custoza
pressoché disfattisti. Anche il generale Giuseppe Sirtori si unì al coro
di accuse contro La Marmora. Quest’ultimo se la prese allora con la
Germania, mettendo in imbarazzo il cancelliere Bismarck che nel gennaio
del 1874 fu addirittura chiamato a rispondere delle accuse di fronte al
Parlamento tedesco. Il già menzionato von Bernhardi accusò La Marmora
d’aver ordito «un intrigo molto losco». Il giornale mazziniano «Il
Sole», per parte sua, montò una campagna contro il generale Enrico Della
Rocca. Il generale Giuseppe Govone nel 1872 si suicidò.
Agli
italiani restò la necessità, come disse Garibaldi (in una lettera
all’amico Orazio Dogliotti) di «lavare Lissa e Custoza». Ad ogni costo.
«Il complesso di Lissa e Custoza», ha scritto Marco Mondini nel saggio
«La guerra perduta: il 1866 e l’antimito della disfatta» — pubblicato
nel libro Fare l’Italia , a cura di Mario Isnenghi ed Eva Cecchinato,
primo volume della serie Gli italiani in guerra (Utet) —, «diventò
rapidamente uno dei più solidi (cattivi) luoghi della memoria della
storia italiana». Tale complesso ci accompagnò fino alla Prima guerra
mondiale. E anche oltre.
paolo.mieli