Corriere 21.6.16
L’eroe dimenticato che salvò il mondo dall’apocalisse nucleare
«Missili atomici Usa in arrivo», avvertì il sistema. Petrov non si fidò e decise di non rispondere
di Fabrizio Dragosei
Fryasino
(Russia) È una persona schiva l’uomo che ha salvato il mondo. Ed è
anche di poche parole. Quando lo incontriamo davanti all’ingresso del
palazzone di cemento in stile kruscioviano dove vive, sta andando a
pagare la bolletta del gas. «Noo!, che ho fatto? Niente di speciale,
solamente il mio lavoro». Poi ripete quello che disse all’inizio degli
anni Novanta, quando la sua storia fu resa pubblica per la prima volta.
«Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto».
In realtà è
stata una fortuna per questo pianeta il fatto che il tenente colonnello
Stanislav Petrov non fosse un militare qualunque, uno dei tanti addetti
alla sorveglianza. Lui era un analista che quella notte si trovò quasi
casualmente a fare un turno di guardia ai calcolatori, sostituendo uno
dei militari professionisti. Un altro avrebbe semplicemente controllato i
segnali in arrivo (cosa che lui fece) e si sarebbe limitato ad
applicare il protocollo, informando i suoi superiori: «Missili
termonucleari americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione
Sovietica fra 25/30 minuti».
Quest’ometto minuto reagì invece
diversamente. Lui non credeva che gli Stati Uniti potessero veramente
attaccare. «E se pure l’avessero fatto, non avrebbero lanciato solo un
grappolo di missili». Si convinse che fosse «un’avaria del sistema».
Così non disse nulla. E salvò il pianeta. La notte in questione era
quella del 26 settembre 1983, «per la precisione le 00.15». Venticinque
giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un
jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio
aereo dell’Urss. Erano gli anni della gerontocrazia al comando, della
paranoia e della profondissima crisi. Il gensek (segretario generale del
partito) Jurij Andropov era permanentemente in ospedale. In
quell’occasione a controllare i radar non c’era un «Petrov», ma un
militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un
apparecchio, probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva
violato il territorio della madrepatria. I generali e i politici
applicarono le regole. In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich
che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine
di abbattere l’intruso. «Non dissi alla base che era un Boeing, perché
nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito.
Petrov
no. Petrov non era ottuso. I missili impiegano meno di mezz’ora per
raggiungere la Russia dagli Usa. Alcuni minuti servono per controllare
che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a
Mosca. L’informazione arriva ai vertici. Si sveglia il gensek e a quel
punto bisogna decidere subito. Militari ed ex agenti del Kgb non sono
abituati a mettere in discussione le procedure. La tensione era
altissima, con Reagan che aveva bollato l’Urss come «impero del male»
appena sei mesi prima e Andropov che si diceva convinto della volontà di
aggressione americana. A un attacco si sarebbe risposto quasi
certamente con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici
lanciati verso gli Stati Uniti. E Washington avrebbe certamente
replicato con il lancio (questa volta vero) delle sue testate nucleari.
Per il pianeta sarebbe stata la fine.
Ma Petrov non era ottuso. Al
suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale
sempre atteso e tanto temuto: «Si accese una luce rossa, segno che un
missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un
ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a
controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto».
Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun
dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa
base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del
Paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi». Petrov era
sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un
analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia
intuizione». Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del
sistema. «I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo
noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica». In seguito
si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle
nuvole.
Pensava di venir premiato, e invece gli arrivò un
richiamo: se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a
progettare il sistema. E tutto venne insabbiato. «Quando mi congedai,
non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello», racconta
ancora. Petrov ha ricevuto vari riconoscimenti all’estero, ma nulla in
patria. E ancora oggi, a 76 anni, fa la vita di sempre nel palazzo di
Fryasino. Nessuno ricorda più l’uomo che ha salvato il mondo.