martedì 21 giugno 2016

Corriere 21.3.16
Così mutano i confini tra I PARTITI
di Massimo Franco

La favola di Matteo Renzi come «re Mida» della sinistra, che trasforma in oro elettorale tutto quello che tocca, ora rischia di essere raccontata alla rovescia. Il suo Pd domenica ha dimezzato i Comuni in cui governa. Il M5S è passato da zero a 19. Il bistrattato centrodestra più o meno tiene. E i leader dimostrano quanto sia difficile analizzare i ballottaggi con freddezza. Lo sfondo è frammentato e mescola fattori locali e nazionali: a conferma che il rapporto con l’opinione pubblica ormai è difficile, volatile.Eppure, qualche linea di tendenza affiora, insieme a molte incognite per l’autunno.
Finito «l’effetto re Mida»
Il primo elemento di novità è, appunto, la fine dell’«effetto re Mida». La vittoria renziana alle Europee del 2014 è un ricordo ingiallito. I ballottaggi del 19 giugno hanno mostrato lo strano fenomeno di candidati del premier come Giuseppe Sala a Milano e Roberto Giachetti a Roma, che raccomandavano agli elettori di votare solo per loro, senza pensare a Renzi. Un paradosso. Fino a qualche mese fa, avveniva il contrario: si pensava che il segretario-premier fosse una sorta di carta in più offerta ai candidati per prevalere contro gli avversari.
Carta, in realtà, un po’ consunta: tanto che non ha funzionato nemmeno nella «sua» Toscana, dove il Pd ha perso molte delle sue roccaforti. A livello locale, da tempo si percepiva una perplessità diffusa verso il capo del governo. Arrivavano strane richieste di alcuni candidati, tipo quella di non avere Renzi ai comizi finali. I fischi, per quanto uniti agli applausi, collezionati in alcune manifestazioni da ministri e ministre, erano scricchiolii. Risultato: amministravano 90 Comuni di quelli in cui si è votato, e ora solo 45. Ha fatto meglio il bistrattato centrodestra: ne conserva 34.
M5S campione di ballottaggi
È una frattura con l’opinione pubblica che i ballottaggi hanno certificato; e della quale si è avvantaggiato un M5S che al secondo turno dà il meglio perché non esprime un’ideologia definita. E si affida a concetti facili come onestà e semplicità, abbinati alla narrativa antisistema. È un’operazione ambigua ma di successo, affidata all’istrionismo di un Beppe Grillo che scompare e riappare a seconda delle convenienze. Così, da zero è passato a controllare 19 città: comprese Roma e Torino. D’altronde, sfrutta un risentimento sociale diffuso.
Ma il Movimento comincia a esprimere un voto più politico, e più micidiale nei suoi effetti. Esce dall’isolamento e cerca di condizionare i risultati non solo quando presenta propri candidati, ma quando si tratta di danneggiare i nemici: di nuovo, il Pd. E lo fa scegliendo un profilo di radicalismo moderato, «d’ordine»: un asse di fatto col centrodestra.
«Perdere qualche Comune è normale»
Il premier sostiene che «dopo due anni di governo è normale perdere qualche Comune». Ha anche ribadito che si è trattato di un voto locale vinto dal M5S nel segno del cambiamento. Ragionamento ineccepibile, ma politicamente un po’ autoassolutorio: soprattutto se tra le città perse ci sono la capitale d’Italia, Torino e Napoli; e se sono cadute in mano a un M5S da sempre schierato contro il Pd, e viceversa. Quando si parla di cambiamento, per quanto ambiguo e da decifrare nella sua portata e nei suoi approdi, è il partito di Grillo a esprimerlo.
Renzi lo riconosce. Eppure viene il sospetto che lo faccia anche per poter regolare meglio i conti interni: come se i candidati perdenti fossero stati scelti non da lui ma da altri; e adesso si trattasse solo di compiere l’ultimo passaggio della «rottamazione». Nel cambio di fase che i grillini cavalcano con abilità e spregiudicatezza, il rischio del Pd è di apparire datato a sua volta.
Un referendum a ostacoli
Se dovesse radicarsi un sentimento del genere, i contraccolpi sul referendum istituzionale di ottobre si farebbero sentire. Renzi è convinto di stravincerlo, e probabilmente ha buoni motivi per pensarlo. Ma dopo la delusione dei ballottaggi, la strada si presenta in salita. E la tendenza a analizzare quanto è accaduto scaricando sugli altri le responsabilità potrebbe alimentare l’insofferenza verso il premier. Alle perplessità sul merito delle riforme approvate, si sommerebbe il rifiuto della personalizzazione del referendum.
Il limbo del centrodestra
In questo scenario, lo schieramento che fa capo a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini sembra condannato al ruolo di comparsa: al massimo di portatore d’acqua. Il vuoto lasciato da FI non viene riempito dalla Lega in chiave xenofoba e estremista. Eppure quel serbatoio di consensi esiste ancora: nonostante l’assenza di una leadership condivisa a livello nazionale.
Lo sconfitto, semmai, è Salvini col Carroccio. Mai come ora avrebbe potuto strappare a FI il primato. Invece esce dal voto ridimensionato nelle ambizioni anche personali. Brucia soprattutto l’insuccesso di Varese, conquistata dal centrosinistra nonostante la candidatura del governatore della Lombardia, Roberto Maroni.
L’astensionismo, primo partito
Ma sconfitte e vittorie, anche del M5S, sono sovrastate da un aumento dell’astensionismo: a conferma che nessuna forza è capace di riassorbire il distacco crescente dalle urne. Ai ballottaggi ha votato appena il 50,54 per cento: quasi il 10 per cento meno che al primo turno. Si può liquidare il fenomeno come tardo-qualunquismo, o come conferma di un’Italia «anglosassone» per il numero basso di votanti. Ma forse, banalmente, esiste un Paese in attesa di un’offerta politica più seria e qualificata: da parte di tutti.