Corriere 21.3.16
Così mutano i confini tra I PARTITI
di Massimo Franco
La
favola di Matteo Renzi come «re Mida» della sinistra, che trasforma in
oro elettorale tutto quello che tocca, ora rischia di essere raccontata
alla rovescia. Il suo Pd domenica ha dimezzato i Comuni in cui governa.
Il M5S è passato da zero a 19. Il bistrattato centrodestra più o meno
tiene. E i leader dimostrano quanto sia difficile analizzare i
ballottaggi con freddezza. Lo sfondo è frammentato e mescola fattori
locali e nazionali: a conferma che il rapporto con l’opinione pubblica
ormai è difficile, volatile.Eppure, qualche linea di tendenza affiora,
insieme a molte incognite per l’autunno.
Finito «l’effetto re Mida»
Il
primo elemento di novità è, appunto, la fine dell’«effetto re Mida». La
vittoria renziana alle Europee del 2014 è un ricordo ingiallito. I
ballottaggi del 19 giugno hanno mostrato lo strano fenomeno di candidati
del premier come Giuseppe Sala a Milano e Roberto Giachetti a Roma, che
raccomandavano agli elettori di votare solo per loro, senza pensare a
Renzi. Un paradosso. Fino a qualche mese fa, avveniva il contrario: si
pensava che il segretario-premier fosse una sorta di carta in più
offerta ai candidati per prevalere contro gli avversari.
Carta, in
realtà, un po’ consunta: tanto che non ha funzionato nemmeno nella
«sua» Toscana, dove il Pd ha perso molte delle sue roccaforti. A livello
locale, da tempo si percepiva una perplessità diffusa verso il capo del
governo. Arrivavano strane richieste di alcuni candidati, tipo quella
di non avere Renzi ai comizi finali. I fischi, per quanto uniti agli
applausi, collezionati in alcune manifestazioni da ministri e ministre,
erano scricchiolii. Risultato: amministravano 90 Comuni di quelli in cui
si è votato, e ora solo 45. Ha fatto meglio il bistrattato
centrodestra: ne conserva 34.
M5S campione di ballottaggi
È
una frattura con l’opinione pubblica che i ballottaggi hanno
certificato; e della quale si è avvantaggiato un M5S che al secondo
turno dà il meglio perché non esprime un’ideologia definita. E si affida
a concetti facili come onestà e semplicità, abbinati alla narrativa
antisistema. È un’operazione ambigua ma di successo, affidata
all’istrionismo di un Beppe Grillo che scompare e riappare a seconda
delle convenienze. Così, da zero è passato a controllare 19 città:
comprese Roma e Torino. D’altronde, sfrutta un risentimento sociale
diffuso.
Ma il Movimento comincia a esprimere un voto più
politico, e più micidiale nei suoi effetti. Esce dall’isolamento e cerca
di condizionare i risultati non solo quando presenta propri candidati,
ma quando si tratta di danneggiare i nemici: di nuovo, il Pd. E lo fa
scegliendo un profilo di radicalismo moderato, «d’ordine»: un asse di
fatto col centrodestra.
«Perdere qualche Comune è normale»
Il
premier sostiene che «dopo due anni di governo è normale perdere
qualche Comune». Ha anche ribadito che si è trattato di un voto locale
vinto dal M5S nel segno del cambiamento. Ragionamento ineccepibile, ma
politicamente un po’ autoassolutorio: soprattutto se tra le città perse
ci sono la capitale d’Italia, Torino e Napoli; e se sono cadute in mano a
un M5S da sempre schierato contro il Pd, e viceversa. Quando si parla
di cambiamento, per quanto ambiguo e da decifrare nella sua portata e
nei suoi approdi, è il partito di Grillo a esprimerlo.
Renzi lo
riconosce. Eppure viene il sospetto che lo faccia anche per poter
regolare meglio i conti interni: come se i candidati perdenti fossero
stati scelti non da lui ma da altri; e adesso si trattasse solo di
compiere l’ultimo passaggio della «rottamazione». Nel cambio di fase che
i grillini cavalcano con abilità e spregiudicatezza, il rischio del Pd è
di apparire datato a sua volta.
Un referendum a ostacoli
Se
dovesse radicarsi un sentimento del genere, i contraccolpi sul
referendum istituzionale di ottobre si farebbero sentire. Renzi è
convinto di stravincerlo, e probabilmente ha buoni motivi per pensarlo.
Ma dopo la delusione dei ballottaggi, la strada si presenta in salita. E
la tendenza a analizzare quanto è accaduto scaricando sugli altri le
responsabilità potrebbe alimentare l’insofferenza verso il premier. Alle
perplessità sul merito delle riforme approvate, si sommerebbe il
rifiuto della personalizzazione del referendum.
Il limbo del centrodestra
In
questo scenario, lo schieramento che fa capo a Silvio Berlusconi e a
Matteo Salvini sembra condannato al ruolo di comparsa: al massimo di
portatore d’acqua. Il vuoto lasciato da FI non viene riempito dalla Lega
in chiave xenofoba e estremista. Eppure quel serbatoio di consensi
esiste ancora: nonostante l’assenza di una leadership condivisa a
livello nazionale.
Lo sconfitto, semmai, è Salvini col Carroccio.
Mai come ora avrebbe potuto strappare a FI il primato. Invece esce dal
voto ridimensionato nelle ambizioni anche personali. Brucia soprattutto
l’insuccesso di Varese, conquistata dal centrosinistra nonostante la
candidatura del governatore della Lombardia, Roberto Maroni.
L’astensionismo, primo partito
Ma
sconfitte e vittorie, anche del M5S, sono sovrastate da un aumento
dell’astensionismo: a conferma che nessuna forza è capace di riassorbire
il distacco crescente dalle urne. Ai ballottaggi ha votato appena il
50,54 per cento: quasi il 10 per cento meno che al primo turno. Si può
liquidare il fenomeno come tardo-qualunquismo, o come conferma di
un’Italia «anglosassone» per il numero basso di votanti. Ma forse,
banalmente, esiste un Paese in attesa di un’offerta politica più seria e
qualificata: da parte di tutti.