Corriere 21.6.16
La vanità identitaria
Difetto necessario dell’umano ecco perché se viene educata sa mettere in moto l’altruismo
di di Carlo Sini
La
vanità: certo un difetto, ma, vorrei aggiungere, un difetto necessario e
inevitabile. Tutto sta nella misura. Perché però necessario? «Vanità
delle vanità, tutto è vanità», dice l’Ecclesiaste, e palesemente si
riferisce all’intera vicenda umana su questa terra, alle storie dei
popoli e dei condottieri, ai trionfi e alle sventure, al destino di
cenere e di nulla di ogni umana impresa. Soffio effimero e vano: questo
significa la parola vanità e sin dagli antichi è diffusa la
consapevolezza della vacuità degli sforzi umani, destinati, senza
eccezione, alla consunzione e all’oblio. Basti l’esempio del sito di
Troia: la superba città alla quale alludiamo con questo nome conobbe in
realtà nomi e vicende innumerevoli, glorie e sconfitte secolari. Alla
fine ciò che resta è una serie di strati sotterranei sovrapposti, ognuno
con il suo cumulo di macerie e di silenzio.
Nell’universo
cristiano il concetto di vanità segna la differenza tra il nostro mondo
di polvere, di lacrime e di sangue e l’eternità perfetta del regno di
Dio. Al confronto le pretese umane appaiono grottesche, come mostra il
dipinto famoso di Hans Holbein, dove due ambasciatori posano con tutto
il superbo splendore delle loro vesti, fieri della loro importanza
sociale. Ma se vi spostate un po’ di lato, vedete comparire sotto i loro
piedi la figura di un teschio: vanitas vanitatum, di nuovo, e memento
mori, ma non trascurate di osservare che hollow bone, osso vuoto,
significa appunto in inglese «teschio»; la pronuncia però suona affine a
Holbein. E così proprio nel cuore della esibita vanità delle cose
terrene il pittore ha messo in salvo il suo nome, indirizzandolo a
futura memoria. Gli umani possono misurare il tempo della loro vita e le
vicende terrene solo a partire dalla loro incancellabile «misura»: essa
vive necessariamente nel cuore di ogni detto e di ogni azione. Anche il
dire che condanna ogni vanità, di fatto la ribadisce fissandone
l’importanza nel detto; come ad aggiungere che questo detto, però, non è
vano. E poi, certo, tutto è vano, tutto finirà nel silenzio e
nell’oblio, l’abbiamo inteso. Però siamo qui e nella natura effimera del
nostro destino è solo ora che siamo chiamati a essere noi stessi e a
decidere le nostre azioni, fosse pure per destinarle, domani, alla loro
vanità mortale. La vanità dell’umano porta il segno di un difetto
necessario.
Ma anche, si era detto, inevitabile, se consideriamo
ora i singoli individui. Chi può negare di coltivare nel cuore una
qualche ombra di vanità? Ognuno è più o meno sensibile alle lodi altrui:
un balsamo che non dispiace e che ha anche ricadute sociali non
disprezzabili. Una vanità nutrita in modi comprensivi e discreti diventa
benevola; se la affamate, si fa invidiosa e maligna. I vanesi, i
narcisisti, i vanagloriosi sono indubbiamente fastidiosi e ridicoli.
Nella loro cecità pretendono di imporre a tutti le loro inezie. Tuttavia
il loro difetto frequenta più l’area dei comportamenti superficiali che
non l’area di quelli cattivi. Tommaseo parlava di un difetto che,
frequente (diceva lui) nell’universo femminile, può riguardarsi con
indulgenza: un giudizio che oggi non ci piacerebbe condividere, ma sulla
sostanza della cosa c’è da dire anche altro e di più.
E la
sostanza è questa: che nulla è più importante per gli esseri umani del
giudizio che su di loro nutrono gli altri esseri umani; nulla conta di
più della loro figura pubblica e del posto che pensano di rivestire
nella stima altrui. Che cosa gli umani non farebbero e non fanno per la
dolcezza di una lode: un principio che l’educatore sa sfruttare al
meglio, inducendo alle azioni più generose e più altruiste, se il premio
è appunto il pubblico riconoscimento e soprattutto la stima di chi noi
stimiamo. Tenuta entro limiti ragionevoli, schermata dalla educazione,
dal buon gusto, dall’intelligenza, che è anche capacità di autoironia e
di autocontrollo, la spinta vanitosa alle azioni meritevoli di lode è un
tratto irrinunciabile della nostra psicologia e del nostro vivere
sociale. Insomma, anche l’amore più puro ha una radice nascosta
nell’amor di sé .
Carlo Sini interviene l’11 luglio all’incontro
sul «La bellezza della scienza» (Sala Buzzati, 0re 12) con Rossano
Ercolini, Pier GiuseppePelicci, Gianpaolo Donzelli, Armando Massarenti,
Eliana Liotta.