Repubblica 21.6.16
Noi italiani siamo folli come Orlando
Riflessioni su amore, caos e spirito nazionale nel poema di Ariosto che compie 500 anni
di Alberto Asor Rosa
Nelle
scorse settimane è comparsa più volte, sui giornali e nei media, la
data del 22 aprile 1616. Per forza: si tratta del giorno in cui sono
scomparsi, pressoché contemporaneamente, William Shakespeare e Miguel de
Cervantes, due dei più grandi scrittori europei dell’età moderna. Ma
esattamente un secolo prima (coincidenze prodigiose della storia), — e
dunque il 22 aprile 1516, — appariva, presso un modesto stampatore della
provincia ferrarese (forse in 1300, forse 2000 copie), la prima
edizione dell’”Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, un altro dei
capisaldi della letteratura europea moderna. Mi pare che poco (o
niente?) se ne sia parlato. La stampa
del ’16, sepolta da un
semisecolare oblio, si può leggere nella bella edizione critica a cura
di Marco Dorigatti (Olschki, 2006). È in quaranta canti, tutti in
ottave, secondo la tradizione del poema cavalleresco italiano. L’ultima,
quella del 1532, è invece in quarantasei canti, e si può leggere
nell’edizione in due volumi a cura di Lanfranco Caretti, e con una
Presentazione di Italo Calvino (Einaudi, 1992). Per avere un’idea di
cosa stiamo parlando, si pensi che la stampa maggiore (quella del ‘32) è
composta da 4822 ottave; i versi sono 38.576: la Commedia di Dante, ne
aveva, diciamo così, appena 14.233. La stampa del ’16 si distingue da
quella del ’32, oltre che per la diversa estensione, per molti altri
aspetti, — cosa che ha spinto alcuni degli interpreti più recenti a
parlarne come di un’opera in sé, diversa da quella finale. Non abbiamo
il tempo né lo spazio per soffermaci su queste particolarità. Vorrei
invece attirare l’attenzione su questioni più generali.
L’Orlando
furioso è una delle dieci grandi opere in cui si rispecchia di più
l’identità nazionale italiana. Nasce nel cuore pulsante del cosiddetto
Rinascimento italiano. Narra, seguendo le orme di una ormai lunga
tradizione, le gesta di cavalieri e paladini cristiani per difendere
Parigi e la Francia dall’aborrita invasione degli Arabi e dei musulmani.
Però piega l’ispirazione iniziale e tradizionale a una nuova visione
del mondo, nella quale ha un posto centrale l’amore (antecedente
immediato ne è, appunto, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo).
Ma questo non è sufficiente alla poderosa spinta innovativa del
cavaliere (anche lui) e cortigiano Ludovico Ariosto. Per cui la carica
amorosa prodigiosa del protagonista Orlando, nel momento in cui sia
tradita e disillusa, si scarica a un certo punto in follia, altrettanto
prodigiosa ed estrema. All’immaginario dei creatori letterari europei
non basta dunque il primo Orlando, eccezionale guerriero e simbolo della
difesa della cristianità (Chanson de Roland, fine del secolo XI). Non
basta l’Orlando “innamorato”. Sorge sulla scena letteraria l’Orlando
“furioso”, ed è tappa di cui pochi, dopo potranno fare a meno.
Non
è sufficiente, per render conto di un processo che attraversa l’intera
Europa e arriva fino a noi, il grande esempio del “cavaliere dalla
trista figura”, del paladino fuori tempo e fuori norma “Don Quijote de
la Mancha”? Del resto, che non si tratti di un’invenzione dello
storico-critico qui sproloquiante, lo dimostra il riconoscimento che lo
stesso Cervantes tributa al suo più illustre predecessore. Quando il
curato e il barbiere penetrano nella biblioteca di Don Quijote e gettano
dalla finestra affinché siano bruciati i più di cento libri di
cavalleria, alla cui lettura si deve la follia dell’”hidalgo”, il curato
risparmia, insieme a pochi altri, il “romanzo” di Ariosto, con parole
che non lasciano dubbi sull’alta considerazione che Cervantes nutriva
per lui: «Ludovico Ariosto, al quale, se lo trovo che parla in un’altra
lingua che la sua, non porterò rispetto alcuno, ma, se parla nel suo
idioma, me lo metterò sopra il capo» (come una vera e propria
onorificenza). Allora: l’illimitato amore di Orlando per Angelica,
figura femminile centrale ma sfuggente; il suo uscir di senno, quando il
paladino scopre che la sua amata si è congiunta carnalmente con un
inaspettato antagonista, Medoro, che per giunta è un soldato semplice,
“un povero fante”; la salita di Astolfo alla luna, per recuperare a
Orlando la ragione perduta, e scoprire così che lì di senno umano “se ne
trova una gran quantità”, mentre di pazzia ovviamente non c’è traccia,
perché essa “sta qua giù, e non se ne parte mai” (considerazioni che
forse potrebbero valere anche per i nostri casi): tutto questo, e le
innumerevoli altre storie di amore, disperazione, tragedia e follia, che
costituiscono la trama oltre ogni immaginazione multiforme del poema,
convergono a costruire la descrizione di un sistema contraddistinto
della non unitarietà e non armonicità del cosmo, sia umano sia naturale.
Ha
già ragionato Massimo Cacciari su queste colonne (il 5 maggio scorso)
del ruolo giocato da follia e infrazione nella prospettiva umanistica
italiana ed europea, un tempo interpretata e valutata sui binari di una
rigorosità razionalistica senza cedimenti. L’Elogio della follia (ovvero
Encomium moriae) di Erasmo da Rotterdam fu tradotto e pubblicato in
Italia dai Giunti di Firenze tra il 1518 e il 1519. Credo di aver
dimostrato qualche anno or sono la presenza di motivi erasmiani in
Guicciardini, tradizionalmente ancorato a interpretazioni tutte
politicistiche e strettamente pragmatiche. Non esiste motivo per credere
che la stessa cosa sia accaduta all’Ariosto, il quale, intorno al
1506-07, aveva raggiunto un livello molto avanzato di composizione del
suo poema.
Ma questo rende ancor più significativo il suo
contributo alla gigantesca traslazione della cultura europea verso i
nuovi lidi. Con questa ulteriore specificazione: e cioè che Ariosto
agisce, con sovrana genialità, sul terreno non del pensiero ma
dell’immaginazione e della poesia. L’Orlando furioso non è un trattato
filosofico, come potrebbe finire per apparire se insistessimo troppo
sulle sue «tematiche» e sui suoi «contenuti». È una prodigiosa «storia
cantata», la quale, soltanto perché è tale, può permettersi di debordare
oltre i confini della tradizione, mantenendo tuttavia intatta, e anzi
moltiplicandola, l’unità dell’insieme. Se si prova a leggere le sue
ottave una dietro l’altra d’un fiato e ad alta voce, — come quando
doveva leggerle Ariosto ai suoi Sovrani e alle sue Signore, — si può
capire più facilmente cosa intendo dire.
Per il resto, basti dire
che tra gli ammiratori più «sfegatati» dell’Orlando furioso ne troviamo
anche qui uno imprevedibile (e imprevisto) come Niccolò Machiavelli: «Et
veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile»; e poi
Galileo Galilei, che nelle Postille all’Ariosto ne esalta il mirabile
talento inventivo e fantastico, contrapponendolo alla smunta
programmaticità ideologica e religiosa (secondo lui) di Torquato Tasso; e
Italo Calvino, che, come spesso gli accade, rimette insieme le cose
sparse, utilizzando le sue immense letture e capacità d’interpretazione:
«Possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più
importanti linee di forza della nostra letteratura ». Chi altri fra i
nostri classici e scrittori, passati e presenti, italiani ed europei,
potrebbe vantare tre estimatori come questi?