Corriere 21.6.16
Un bagno di realtà
di Gian Antonio Stella
«Stanotte
non si riesce a dormire», ride su Facebook Fiorella, un’elettrice
romana, «Hanno appena citofonato per la raccolta porta a porta, stanno
colando catrame per coprire le buche sotto casa e trapanando per
installare i giochini per i bimbi nel parchetto…». Battute. Amichevoli.
Nessuno pretende che Roma e Torino, le capitali prese dalle «Pulzelle 5
Stelle», cambino così, con uno schiocco di dita, in poche ore, pochi
giorni, poche settimane. Ma le aspettative sono tali, intorno alla
mirabolante svolta, da imporre alle due ragazze-sindache un compito
titanico: mostrare in fretta le loro capacità di governo. Molto in
fretta.
La prima grana per Virginia Raggi e Chiara Appendino è
infatti questa. Per quanto abbiano studiato, abbiano le lauree giuste e
si siano infarinate negli uffici municipali come consigliere, le due
avrebbero bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi, dei dossier,
delle macchine comunali. Così da incidere poi in profondità nelle cose
che non vanno. Non basteranno pochi mesi o pochi anni per sanare,
soprattutto in Campidoglio, piaghe finanziarie, amministrative, etiche,
urbanistiche finite in cancrena.
U na missione da far tremare le
vene e i polsi. Davanti alla quale ogni persona con la testa sul collo
dovrebbe sentirsi inadeguata. Fosse pure Winston Churchill: come può una
persona sensata sentirsi all’altezza di governare Roma? Oggi? Ma «fra
Modesto non fu mai priore», dice un vecchio proverbio: l’ambizione è
essenziale per accettare certe sfide. E dunque evviva la grinta, sotto
questo profilo, d’una classe dirigente giovane e femminile decisa a
lasciare il segno.
Purché la Raggi (e così la Appendino, anche se
eletta alla guida di una realtà storicamente amministrata meglio) abbia
chiaro che nulla le sarà perdonato. Certo, per qualche tempo gli
avversari stessi saranno costretti ad accettare i legittimi lamenti
sulla «pesantissima situazione ereditata». Durerà poco, però. Poi ogni
ritardo nella soluzione di problemi annosi sarà addebitato al nuovo
sindaco, alla nuova giunta, alla nuova maggioranza.
Di più: dopo
averla invocata per anni e sperimentata solo in alcune realtà locali
minori (per quanto possa esser definita minore Parma dove Federico
Pizzarotti è andato subito a scontrarsi contro una realtà molto più
difficile da modificare rispetto ai sogni, ricavandone scomuniche),
Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno in pugno la possibilità di
misurare, a dispetto di tutti gli scettici, la capacità del M5S di
essere davvero forza di governo. Non basterà loro amministrare bene come
viene chiesto a Beppe Sala o Roberto Dipiazza: a loro sarà chiesto di
più. Un peso supplementare.
Un conto è strillare come Beppe Grillo
che «bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia,
enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe»,
un altro affrontare quotidianamente, tra una trattativa sindacale,
un’epidemia influenzale dei pizzardoni e una improvvisa voragine per
strada a Montesacro, i temi degli asili a Torre Spaccata, delle bare in
giacenza a Prima Porta, della manutenzione delle Mura Aureliane, dello
sfalcio dell’erba a Porta Maggiore, dei finti gladiatori con corazza di
finto cuoio che importunano i turisti e via così, di rogna in rogna. Per
questo, dopo le esperienze fallimentari delle gestioni di destra e di
sinistra in Campidoglio, col loro strascico di inchieste giudiziarie e
risse politiche, una massa dei romani che prima avevano votato di qua e
di là hanno scelto di investire massicciamente, al di là del curriculum
contestato, su Virginia Raggi. E per questo, comunque la si pensi, c’è
da sperare che non cominci subito un tiro al bersaglio per dimostrare
che anche la nuova sindaca è destinata al fallimento e peggio ancora che
in fondo «è come gli altri perché so’ tutti uguali». C’è già online
(«romafaschifo.com») chi scommette: «La mafietta romanella sarà capace
di farla fuori in quattro e quattr’otto, sicuro. Sindacati famigliari,
palazzinari, imboscati comunali, occupatori di professione, mutandari,
cartellonari, antagonisti etc etc, faranno comunella in combutta col
governo Nazionale e la Raggi sarà costretta ad abbandonare…».
Può
darsi, che finisca così. E può darsi che anche a Torino possano
rimpiangere di non essersi adagiati nella serena e consueta gestione
garantita da Fassino. Dopo decenni di delusioni seminate dai partiti
storici che hanno portato a volte nei municipi pratiche e personaggi
immondi, però, sarebbe un peccato se questa sfida di due donne alla
guida di due grandi comuni venisse segata così, a priori, «a
prescindere» direbbe Totò, per la voglia di dimostrare che «non ce la
faranno mai». Se eventuali fuoriclasse dimostrassero di esser in grado
davvero di governare meglio, ben vengano: ci guadagneremmo tutti.
Detto
questo, chi esulta oggi per il voto a Roma e Torino deve essere il
primo, per decenza, a non fare sconti alle due nuove amministrazioni. E a
pretendere davvero una svolta. Qualche dubbio, infatti, c’è. Dice tutto
l’autobus dell’Atac fotografato con la scritta luminosa «Welcome
Raggi». È vero che la candidata grillina ha fatto di tutto per
rassicurare tutti, a partire dagli autisti della sgangherata e
clientelare azienda dei trasporti definita «un fiore all’occhiello», ma
queste rassicurazioni con le colpe addossate solo ai partiti saranno
seguite o no da un repulisti reale, duro e se necessario impietoso?
E
come può il programma ufficiale dedicare 677 parole alla casa senza mai
nominare la parola «abusivi» se i libri dello stesso assessore nuovo
Paolo Berdini parlano di almeno 84 borgate fuorilegge con centinaia di
migliaia di stanze? E si può promettere trasparenza per 2.096 parole
(quasi il doppio della dichiarazione d’indipendenza americana) senza
nominare mai la (cattiva) burocrazia? E il «contrasto all’abusivismo
turistico/ricettivo in ogni sua forma» sarà seguito sul serio da una
guerra agli hotel illegali? E che sarà del patrimonio di 42 mila
immobili comunali affittati in moltissimi casi a 7,75 euro al mese? A
farla corta: dopo esser stata votata da tutti e avere rassicurato tutti,
a partire dai soliti tassisti, sarà bene che Virginia Raggi si ricordi
di Anatole France: «Non esistono governi popolari. Governare significa
scontentare». Lo farà? C’è da augurarsi di sì .