lunedì 20 giugno 2016

Corriere 20.6.16
Il messaggio nazionale dalle 5 capitali
di Gian Antonio Stella

«B oh, si votava per Pizzighettone…», sbuffò un giorno Silvio Berlusconi tentando di minimizzare una batosta alle amministrative. Matteo Renzi no, non aveva tirato in ballo il borgo lombardo. Ma aveva battuto e ribattuto per settimane sulla stessa tesi: «È solo un voto locale». Vaglielo a spiegare ora, ai media internazionali e agli amici di partito, il tracollo a Roma e la traumatica scoperta della svolta di Torino.
Torino la più fedele. Conquistata da un’altra giovane donna grillina. Sa bene, il premier, che c’è sconfitta e sconfitta. E che il voto «locale» ha già segnato la sorte di vari governi.
Quando l’allora Cavaliere fece quella battuta su «Pisighitòn» dopo la tornata della primavera ‘95 spiegando che si trattava di «elezioni che non contano» e che «i moderati si sa come son fatti, non brillano per affezione al voto quando ci sono in discussione cose che non riguardano il destino del Paese», spacciava una realtà irreale: le elezioni avevano coinvolto 15 regioni, 75 consigli provinciali e 5.119 comuni (di cui 44 capoluoghi) per un totale di 43 milioni di elettori. Difficili da liquidare come un «sondaggio».
Anche stavolta, però, non era in ballo questo o quel paesello. C’erano addirittura cinque capitali che per la prima volta votavano insieme: la capitale politica, la capitale economica, la capitale originaria e fondatrice, la capitale del Sud e la storica capitale di quello che era il «Paese rosso». Tutte cinque reduci da gestioni (buone, stiracchiate, disastrose) più o meno rosse o rossissime. Due su cinque, stando ai primi dati, perdute nella notte. E lì era il senso politico, squisitamente politico, del passaggio elettorale. «O con me o contro di me», era stato il messaggio. La risposta: contro.
Piaccia o no al gagliardo ex sindaco di Firenze e ai compagni di partito più o meno fedeli che da settimane intonavano il coro (da Luca Lotti a Vannino Chiti fino a Nicola Latorre: «Il tentativo di trasformare il voto in un referendum sul governo appare maldestro») è sempre andata così: chi sta a Palazzo Chigi sdrammatizza, chi sta all’opposizione dà fuoco alle micce. Ma perché le elezioni «locali» siano davvero locali occorre vincerle. Se si perdono, è proprio un guaio grosso.
Lo imparò a sue spese sedici anni fa, per un piccolo paradosso della storia, quello che oggi è il peggior avversario interno di Renzi, Massimo D’Alema. Entrato lui pure nella stanza dei bottoni senza l’investitura del voto popolare. Sfangata la sconfitta alle europee del ‘99 dove il partito era rimasto 7 punti sotto Forza Italia («Nei Paesi europei il parlamento viene eletto con “legislative”. Le europee servono per il parlamento europeo. Si sa», aveva sentenziato l’allora premier) il «Lìder Massimo» andò alle regionali del 2000 piuttosto baldanzoso: «Ritengo che il centrosinistra prevarrà abbastanza largamente». Aggiunse tagliente che la destra aveva «disprezzo per le regioni e i cittadini che non sono carne da sondaggi» e che in Inghilterra «chi sta al governo perde regolarmente le comunali» ma «non viene in mente a nessuno che il governo se ne debba andare». La sinistra perse Liguria, Lazio, Abruzzo e Calabria, i Ds tirarono su solo un milione di voti più di An e lui, mentre gli ultimi irriducibili come Lapo Pistelli protestavano che «non c’è automatismo tra i risultati delle regionali, la tenuta del governo e le elezioni anticipate», gettò la spugna.
Lo stesso Silvio Berlusconi, che maramaldeggiava in quei giorni spiegando che «se un Paese democratico sfiducia il governo, si vota», avrebbe saggiato presto quanto il voto «non politico» possa essere politico. Incassate le sconfitte alle amministrative 2002 («È ridicolo e patetico che esponenti del centrodestra si affannino a parlare di voto locale: la nostra vittoria è inequivocabile», diceva Piero Fassino), alle regionali friulane 2003 («È una sconfitta politica che apre una riflessione nel governo», sibilava D’Alema), alle suppletive e alle europee 2004 (4.085.683 voti persi da Forza Italia col fondatore che faceva spallucce: «non è poi una flessione così rilevante»), le regionali del 2005 (perdute 12-2) furono fatali. «Non sono state un referendum sul governo», si precipitò a dire Enrico La Loggia. Pochi giorni dopo, però, il premier era costretto a dimettersi. Per formare un nuovo esecutivo. Addio record…
E così è andata avanti per anni. Con ogni elezione «locale» che assumeva valore nazionale. Le comunali della primavera 2005 a Catania che interruppero la serie nera forzista e quelle d’autunno a Messina che anticiparono la sconfitta nel 2006. E poi, a parti rovesciate, le amministrative 2007 con Berlusconi che incitava a «politicizzarle al massimo: trasformarle da voto locale a voto politico» contro il governo dell’odiato Prodi che l’aveva battuto d’un soffio l’anno prima e D’Alema che avvertiva: «non si vota per il governo e checché se ne dica il governo andrà avanti per la sua strada per altri 4 anni». E poi ancora, a parti di nuovo ribaltate, le comunali del 2011 col Cavaliere che, pochi mesi prima d’essere sfrattato, spingeva a votare contro Pisapia perché ciò era «fondamentale per dar sostegno al governo del Paese» e Bersani che gli rovesciava tutto addosso: «Vinciamo noi e perdono loro, la sfida lanciata da Berlusconi si è rivelata un boomerang». E via così. Potremmo andare avanti per ore. E potete scommettere che stanotte, a vedere i primi exit poll, Matteo Renzi ha capito quanto il «voto locale» potesse rovesciargli addosso una grandinata di nuovi problemi …