lunedì 20 giugno 2016

Corriere 20.6.16
Gli errori e le insidie
di Massimo Franco

Sarà difficile minimizzare quanto è successo ieri nelle maggiori città italiane. E ancora di più catalogare come voto amministrativo ballottaggi che spediscono al governo nazionale un segnale univoco. Per mutuare il verbo crudo scelto da Matteo Renzi all’inizio della sua esperienza, l’elettorato ha «rottamato» il Pd a Roma e Torino, premiando le due candidate del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi e Chiara Appendino; e fino a notte fonda ha tenuto in bilico la vittoria a Milano di Giuseppe Sala su Stefano Parisi del centrodestra. Il capoluogo lombardo è l’unica soddisfazione, e non da poco, per Palazzo Chigi. Gli consente di tirare un sospiro di sollievo, come a Bologna. Relativo, però. Né basterebbe prendersela con gli avversari interni: le diatribe tra i Democratici interessano poco, ormai.
La sconfitta della sinistra di governo pone un problema di sistema, perché l’alternativa in incubazione ha il profilo di Beppe Grillo. Il rischio, adesso, è di gettare l’esecutivo in un limbo di paura e di logoramento che il vertice del Pd dovrà affrontare anche psicologicamente. Va ribadito che non si vede una maggioranza diversa dall’attuale per guidare l’Italia. Ieri, tuttavia, si è aperta una stagione che cancella qualunque illusione di primato e di posizione di rendita.
A l punto che viene da chiedersi se il Pd riuscirà a prevalere nel referendum di ottobre sulle riforme istituzionali: quello su cui punta tutto.
Se non cambia la strategia, c’è da dubitarne. Il flop delle Amministrative non avviene per la bontà delle proposte avversarie. È figlio di errori di sottovalutazione e di un filo di presunzione. Non è esagerato dire che probabilmente, qualunque candidato del M5S avrebbe dato filo da torcere a Pd e centrodestra. E non solo perché il movimento di Grillo è una «macchina da ballottaggi» capace di pescare consensi dovunque. La sua affermazione si alimenta del fallimento delle forze tradizionali: è il sintomo della delusione verso i partiti tradizionali, e di tensioni sociali irrisolte.
Per Renzi lo schiaffo è più doloroso, perché respinge la sua narrativa ottimistica e getta ombre sul referendum. Due anni e mezzo di segreteria del Pd e oltre due di presidenza del Consiglio dovevano consacrarlo come il leader capace di riplasmare la sinistra e porsi come nuovo baricentro della politica. Il mandato era di fermare Grillo e di far ripartire l’economia attraverso le riforme. Alcune riforme ci sono, eppure i loro effetti tardano a vedersi. Già emergono, invece, i contraccolpi negativi. Il M5S ha espugnato facilmente il Campidoglio, sospinto da un consenso popolare gonfiatosi sulle macerie del Pd e del centrodestra capitolini.
E a Milano è bastato un candidato moderato come Parisi per mettere in forse fino all’ultimo la vittoria di Sala. Quanto a Napoli, cuore del Sud, i Dem non sono arrivati nemmeno al ballottaggio. Insomma, abbiamo alcune delle «capitali» d’Italia non governate dal Pd. E lo schema del partito che si percepisce così forte da ritenersi autosufficiente deve fare i conti con ballottaggi dispettosi. I risultati confermano che nessuno si può permettere l’autarchia. Sono necessarie alleanze. Gli unici a prescinderne in nome di una controversa purezza sono i grillini: almeno ufficialmente.
Bisogna prendere atto che al secondo turno si formano coalizioni di fatto, micidiali per chi ne è escluso. Si tratta di una verità che potrebbe portare a una modifica dell’Italicum, ritenuto dal premier un tabù intoccabile. Bisognerebbe aspettarsi un ripensamento dell’agenda del governo, e del modo in cui il premier ha svolto il suo doppio incarico. L’insuccesso, tuttavia, non può essere scaricato solo su di lui. I limiti di leadership si abbinano all’incapacità dell’intero Pd di trasmettere al Paese un messaggio di unità e di credibilità.
Gli elettori hanno tolto a Renzi l’aureola della grande vittoria del Pd alle Europee del 2014. Ma c’è poco da rallegrarsi. La fase che si apre presenta molte insidie. Non c’è un dopo-Renzi in vista. C’è un partito-perno che di colpo si ritrova indebolito e magari tentato dalla caccia ai capri espiatori: tutte premesse di un periodo di confusione. Bisogna sperare che, messo di fronte alla responsabilità di governare, il M5S scelga un profilo meno estremista; e riesca a battere le diffidenze verso la sua classe dirigente magari onesta ma inesperta e manichea: anche perché il tripolarismo sta diventando sfida Pd-M5S. Con la Lega ridimensionata nelle ambizioni, e l’astensione come convitata di pietra.