Corriere 19.6.16
Quattro leader per una Spagna Verso un sorpasso storico a sinistra
di Aldo Cazzullo
c
ome un popolo che ha dato al mondo Cervantes e Lorca, Goya e Picasso,
Velazquez e Gaudí possa votarsi all’autodistruzione, è un mistero che
neppure gli spagnoli sanno spiegare. Si è votato a Natale, si rivota il
26 giugno. Sei mesi senza governo, sei mesi di inutili trattative. E ora
stessi candidati, stessi comizi e — secondo i sondaggi — stessi
risultati. L’unica novità è che quel diavolo di Pablo Iglesias — aura da
idealista, abilità da prestigiatore — si presenta con i comunisti di
Izquierda unida : «Unidos Podemos» diventerà così il primo partito della
sinistra, superando i poveri socialisti. E questo complicherà
ulteriormente le cose.
La Spagna è di malumore, in crisi di
autostima, in rivolta contro l’establishment e i vecchi partiti — come
tutto il mondo — ma senza credere sino in fondo ai nuovi. Pochi anni fa
avevano il tennista più forte, il cuoco più bravo, il giudice più
onesto, il regista più trasgressivo.
O ra Nadal è sempre rotto,
Ferran Adrià ha chiuso, Garzon è stato estromesso dai suoi stessi
colleghi, Almodóvar beccato con i soldi a Panama. La crisi è stata
durissima: un panorama di gru e cantieri interrotti, senzatetto sotto i
portici delle piazze reali; all’impoverimento si è aggiunta una gara di
scandali tra popolari e socialisti; pure l’Infanta Cristina è finita
sotto processo, per lei hanno chiesto otto anni, per il marito 19 e
mezzo, a giorni il temuto giudice Castro farà conoscere la sentenza. Ora
il Paese si è un po’ ripreso, la crescita è buona, la Germania — che
controlla il debito pubblico — ha dato una mano, l’Europa di conseguenza
pure: tollera un deficit al 5%, il doppio di quello italiano. I
disoccupati sono scesi sotto i 4 milioni, ma è un dato difficile da
festeggiare; anche perché non include chi si è arreso e il lavoro
neppure lo cerca più. La vera arma del premier Rajoy è l’ascesa
dell’uomo con il codone da tanguero che spaventa i moderati: El Coleta,
Pablo Iglesias.
Iglesias: il Messia
I suoi comizi sono
imperdibili. Messe laiche, dove lui è al contempo il sacerdote e la
divinità. Ride e piange, grida e sussurra. Bacia tutti sulla bocca,
donne e uomini: a Barcellona ha ribaciato a fior di labbra Xavier
Domenech, l’alleato catalano, come già aveva fatto in Parlamento per lo
scandalo del re, da cui Iglesias va in jeans e camicia bianca aperta.
Molto simpatico, molto carismatico, del tutto inaffidabile: «È un
camaleonte. Un mutante. Al mattino è comunista, a pranzo peronista, il
pomeriggio anarchico, la sera socialdemocratico, la notte patriota» ha
detto di lui Susana Diaz, presidente dell’Andalusia e donna forte del
partito socialista. L’ultimo slogan di Iglesias in effetti è «La patria
eres tu», la patria sei tu.
«È la riformulazione postmoderna e
addolcita del fascismo — dice Javier Cercas, lo scrittore che ha
compiuto il miracolo di vendere milioni di copie con un libro sulla
guerra civile, Soldati di Salamina —. Lo schema del bene contro il male,
della Spagna contro l’anti Spagna è un argomento ricorrente nella
nostra storia. José Antonio diceva di preferire i comunisti ai borghesi;
oggi Podemos dice che i populisti sono meglio della casta, e loro
sapranno volgere il populismo a sinistra. È un’operazione spregiudicata,
ma avrà successo, perché il Paese è percorso da pulsioni disperate e
irrazionali».
I più disperati sono i socialisti. A meno di
clamorose rimonte, il bel ragazzo Pedro Sánchez vive i suoi ultimi
giorni da segretario. Se a Iglesias riuscirà il Sorpasso, come lo chiama
— El Coleta parla perfettamente l’italiano e cita di continuo Gramsci e
Berlinguer —, Sánchez dovrà andarsene e il suo successore sarà indicato
dalla Diaz; che potrebbe anche indicare se stessa.
Il Psoe si sta
rinserrando nel feudo andaluso; e gli andalusi sono contrarissimi
all’ipotesi di un governo con Podemos, che vuole concedere il referendum
per l’indipendenza ai catalani e ai baschi. Senza le industrie di
Barcellona e le banche di Bilbao, alla Spagna profonda resta solo il
turismo. E poi Psoe e Podemos sono in disaccordo su tutto, dall’economia
all’ideologia. «Il mio non è trasformismo, è esercizio di previsioni
storiche» filosofeggia Iglesias. Ora ad esempio prevede di distruggere
il partito socialista; e ci sta riuscendo. Non a caso il suo bersaglio
preferito è l’andaluso Felipe Gonzalez; che lo odia e lo accusa di aver
preso soldi dal satrapo venezuelano Chavez.
La sera del 26 giugno
il rebus del governo si ripresenterà tal quale. Spingono per la grande
coalizione l’Europa, la Merkel, la Confindustria spagnola, pure la
Chiesa: il cardinale Ricardo Blazquez, capo dei vescovi, ha rilasciato
alla «sua» radio, Rede Cope , un’intervista preoccupatissima: «Gli
spagnoli rischiano di smarrire lo spirito della riconciliazione». Ma per
i socialisti governare con i postfranchisti del Pp è impossibile.
L’idea di Gonzalez e della Diaz è consentire la nascita di un governo
dei popolari, che arriveranno primi, con una percentuale attorno al 30%.
L’ipotesi più razionale è un accordo tra il Pp e i centristi di
Ciudadanos, sempre rampanti nei sondaggi grazie alla freschezza del
giovane leader Albert Rivera — catalano ostile all’indipendenza della
Catalogna — ma penalizzati nelle urne. I socialisti potrebbe astenersi, a
condizione che il primo ministro non sia più Rajoy. Aznar, che lo
detesta, darebbe una mano a individuare un’alternativa che per ora non
c’è: si parla della vicepremier Soraya Saenz de Santamaria, o della
presidente della comunità di Madrid, Cristina Cifuentes. Ma non sempre
la Spagna è stata governata dalla ragione.
La legge sulla memoria
Rajoy
è gallego come Franco e partecipe della sua «retranca», una forma
astuta e zitta di attendismo; per il resto, è un democristiano che ha
fatto quello che la Merkel gli ha detto di fare. Nell’infuocato
Consiglio europeo sulla Brexit, in cui i leader si sono scannati per un
giorno intero sui diritti degli emigrati nel Regno Unito, Rajoy in
difesa dei 200 mila spagnoli di Londra ha fatto un solo intervento di 47
parole. Tacere e aspettare. Ora imposta la campagna elettorale contro i
sindaci di Podemos appoggiati dai socialisti, Ada Colau a Barcellona e
Manuela Carmena a Madrid, che «governano con gli estremisti di Okupa ma
ospitano Varufakis negli hotel da 1.200 euro a notte; e soprattutto
riaprono ferite cicatrizzate dalla storia».
Nelle due capitali si
sta applicando la legge sulla memoria voluta da Zapatero, e si stilano
liste di nomi di strade e piazze da cancellare. «A Madrid hanno tolto
anche la lapide che commemorava quattro sacerdoti trucidati dai
repubblicani — lamenta José Luis Restan, che di Cope è direttore
editoriale —. Poi hanno scoperto che non erano franchisti; erano
martiri. Così hanno dovuto rimettere la lapide al suo posto. Questo non
ha impedito all’assessore alla Cultura, Celia Mayer, di dire che non c’è
stata riconciliazione tra gli spagnoli perché non c’è stata giustizia.
Ma questi della guerra civile non sanno nulla. Nulla! Sono nati con la
democrazia. Pensano che la Spagna sia stata trasformata in un mattatoio
solo da Franco e ignorano i massacri degli stalinisti. Il radicalismo
culturale di Zapatero ha risvegliato lo spettro della guerra civile, che
ora viene evocato da una nuova generazione ancora più radicale. Senza
Zapatero non avremmo Podemos. Che non a caso rinnega la transizione e
chiede una nuova Carta costituzionale».
Nell’attesa, la sindaca di
Madrid dà il benvenuto ai migranti: «Welcome refugees» ha fatto
scrivere in inglese sul municipio. Finora però i rifugiati sono appena
124; forse ne arrivano altri 426, ma dopo le elezioni; mentre a Ceuta e a
Melilla, città spagnole in Marocco, ai migranti si spara da dietro il
filo spinato.
E comunque qualsiasi discorso sulla Spagna, anche il
più severo, sarebbe incompleto se non restituisse almeno in parte il
calore, la vitalità, il respiro di questo grande Paese: il terzo più
visitato al mondo — con il Nord Africa chiuso ai turisti si annuncia
un’estate record —, la terza lingua più parlata, e il fascino profondo
di una terra latina come la nostra ma più vasta, più silenziosa, più
fiera, talora al limite del suicidio.
Aldo Cazzullo