Corriere 17.6.16
La crisi di identità dei grandi partiti Usa
di Massimo Gaggi
Qu
esto 2016 segnato in tutto l’Occidente dalla crescita di movimenti e
leader populisti e da allarmanti successi dei nuovi partiti xenofobi,
negli Stati Uniti è stato esaminato soprattutto dal punto di vista del
fenomeno Trump e della crisi del partito repubblicano: un fronte
politico che, a partire dall’emergere dei Tea Party, sei anni fa, ha
gradualmente perso dirigenti di peso e identità, fino a rischiare di
essere spazzato via dal suo stesso candidato alla Casa Bianca. Il
miliardario si è, infatti, presentato agli elettori sotto le bandiere
del «Grand Old Party» ma, dal rifiuto del free trade agli atteggiamenti
razzisti e all’ostilità verso i musulmani, dimostra di non condividere i
cardini ideologici essenziali della forza politica alla quale, pure,
appartiene: preannuncio della fine del partito repubblicano, almeno
nella forma finora conosciuta, in caso di elezione di Trump. Ma nemmeno i
democratici, che si consolano vedendo la casa dei loro concorrenti in
fiamme, hanno molto di che gioire. E non solo perché non sono riusciti a
produrre una credibile alternativa al candidato della «famiglia reale»
dei Clinton. Il fenomeno Sanders che, partito da consensi inferiori al
3%, è arrivato a mettere in dubbio la nomination dell’ex Segretario di
Stato, non sembra essere solo la propaggine di un radicalismo populista
che si sta diffondendo a destra come a sinistra. L’ala progressista,
denunciano analisti, politologi e storici come Thomas Frank e Steve
Fraser che hanno appena pubblicato, rispettivamente «Listen, liberal» e
«The Limousine Liberal», si è persa tra le «vacche sacre» delle grandi
università liberal delle due coste e gli interessi dei ceti
professionali e manageriali progressisti. Così ha smarrito per strada la
sua matrice popolare, l’attenzione per i ceti più svantaggiati. Il
confronto repubblicani-democratici in questo modo è diventato la sfida
tra il capitalismo conservatore delle grandi famiglie e dei grandi
gruppi abituati ad ottenere protezione dallo Stato e a sfruttare
situazioni di oligopolio, e quello più moderno dei manager e degli
imprenditori della Silicon Valley. Che, però, con lo spostamento di
ricchezza verso le imprese dell’economia digitale, accentua le
sperequazioni nella distribuzione del reddito e illude i suoi referenti
politici che un riequilibrio possa avvenire con la filantropia e la
nuova economia del crowdsourcing e dei servizi on demand .