Corriere 17.6.16
John Foot,
«Il danno fatto alla Gran Bretagna non avrà termine col referendum»
intervista di Maurizio Caprara
«Sul
movente dell’assassinio della deputata laburista Jo Cox preferisco
aspettare, eviterei commenti affrettati. Altra cosa è parlare del
contesto nel quale è avvenuto: di certo mentre il clima si è
surriscaldato al massimo», dice John Foot, 51 anni, storico che ha la
cattedra all’università di Bristol. Poi osserva: «C’è una grande crisi
di identità, ci si domanda che cosa vuol dire essere inglese, scozzese.
Le origini non sono recenti, ma è avvenuto tutto in poco tempo.
Settimane, giorni. E il danno che questo dibattito ha fatto alla Gran
Bretagna non finirà con il referendum».
Pronipote del leader
laburista Michael e favorevole a restare nell’Unione Europea, Foot non
nasconde le proprie idee sul voto di giovedì prossimo nel quale il suo
Paese è chiamato a decidere se accentuare o meno il proprio spirito di
isola rispetto al continente. La sua analisi sullo stato attuale del
Regno Unito però è amara, non priva di critiche anche alla propaganda
del fronte del sì alla permanenza nell’Ue. Merita ascolto, dà l’idea di
come il velocizzarsi della politica, in un’epoca di insicurezza, possa
portare ad avvitamenti collettivi che prima richiedevano tempi più
lunghi.
In Gran Bretagna la crisi economica cominciata nel 2008 è
stata più breve che altrove, i partiti politici sembrano meno fragili
che in altre parti d’Europa. A quali cause attribuisce il
surriscaldamento nel confronto tra contrari e favorevoli a restare
nell’Unione Europea?
«La crisi è stata profonda anche qui e i
tagli ai servizi sociali continuano. In vista del referendum si parla di
identità, immigrazione, “invasioni”, questioni che toccano il profondo.
Non è un fine dibattito politico».
Che cosa sarebbe secondo lei?
«È
diventata una battaglia di identità: noi contro loro. Qualsiasi cosa
dica una parte viene rigettata dall’altra. Agli esperti si obietta: dici
bugie. Il fronte favorevole a restare sostiene che se esci dall’Ue
perdi il lavoro e la casa, l’altro fa leva su diverse paure. È uno
scontro violento tra paure, non un dibattito. È stato come un vaso di
Pandora: una volta aperto, sono venuti fuori tutti gli spiriti della
rabbia».
Possibili sbocchi?
«Non finirà la settimana
prossima con i vincitori che dicono “che bello” e gli sconfitti no.
Intanto sarà una competizione all’ultimo voto. Poi la violenza è sui
social media, non esiste un terreno comune. E c’è l’odio verso la
politica, conosciuto in America e da voi».
Peccò di superficialità il primo ministro conservatore David Cameron nel promuovere il referendum?
«Un
errore politico di primo livello. Lo promise per vincere le elezioni,
temeva di perdere voti a vantaggio dell’Ukip (Partito per l’Indipendenza
del regno Unito, ndr ) di Nigel Farage. Ha funzionato per le elezioni,
ma Cameron non aveva fatto i conti con la paura che si sarebbe
sprigionata e con vent’anni di propaganda antieuropea. Così siamo di
fatto senza governo: abbiamo ministri del suo partito in lotta tra
loro».
Errore che Cameron pagherà?
«Comunque andrà il referendum, sarà la fine di Cameron. E se perderà, un disastro totale».
Nel
suo libro Fratture d’Italia lei ha scritto: «Dal 1945 la battaglia
sulla memoria è stata una caratteristica costante della politica
italiana». Il nostro Paese è passato attraverso anni di violenza e
terrorismo e ne è uscito. Sulla Gran Bretagna è sbagliato credere che il
terrorismo venisse soltanto dall’esterno, dall’estremismo cattolico
irlandese dell’Ira?
«C’è stato anche il terrorismo inglese del
2007, di individui radicalizzati. Quello irlandese era frutto di una
guerra, della fine di un impero. Ma, davvero, sul movente
dell’assassinio voglio aspettare. Sono scioccato. Da 200 anni qui non
veniva ucciso un deputato...».