Corriere 14.6.16
Intellettuali sotto Stalin
Bulgakov, Feuchtwanger, Benjamin, Gide dinanzi alla feroce dittatura sovietica
di Paolo Mieli
Il
poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, fu un luogo chiave della
grande mattanza staliniana negli anni 1937-38. Le prime 91 vittime
furono lì trasferite dalle carceri moscovite l’8 agosto 1937, le ultime
52 vi arrivarono il 19 ottobre 1938. Karl Schlögel — autore del
monumentale e assai scrupoloso L’utopia e il terrore. Mosca 1937. Nel
cuore della Russia di Stalin che sta per essere dato alle stampe da
Rizzoli — considera affidabile il dato secondo cui, in quei 15 mesi, nel
poligono moscovita avrebbero perso la vita 20.761 persone, molte delle
quali appartenenti all’élite prerivoluzionaria e alla vecchia guardia
bolscevica. Vecchia guardia che, paradossalmente, proprio nei giorni
iniziali dell’ecatombe si accingeva a celebrare il ventennale della
rivoluzione d’Ottobre. Di anni ne sarebbero poi trascorsi 56 prima che,
per merito di un’ex funzionario dell’Nkvd, nel 1993 l’area in cui erano
state perpetrate quel tipo di esecuzioni con un colpo alla nuca venisse
identificata e aperta ai familiari delle vittime. Dagli scavi nella
fossa comune emerse che i cadaveri erano stati disposti su tre strati,
alcuni sotterrati ancora vivi, molti nel tempo si erano fusi l’uno con
l’altro. Ed erano, i ventimila sepolti, solo una minima parte dei
settecentomila (su due milioni di arrestati) che, tra il 1937 e il 1938,
furono sotterrati in analoghe necropoli.
La catastrofe storica e
le tragedie umane dell’Unione Sovietica, fa notare Schlögel, non hanno
ancora ricevuto l’attenzione dovuta. C’è tuttora una «disparità di
trattamento» per la quale i nomi di Dachau, Buchenwald e Auschwitz sono
«scolpiti nell’anima», ma si stenta invece a ricordare quelli di
Vorkuta, Kolyma o Magadan. Colpa delle «schermaglie ideologiche della
guerra fredda, in cui nulla poteva essere considerato vero se sostenuto
dalla parte sbagliata». Ma ora che la guerra fredda è finita (da 27
anni!) è doveroso tornare in modo esaustivo in quella Mosca del 1937 che
«è uno dei luoghi chiave della storia europea del Novecento».
Per
capire a fondo cosa fu la Mosca di quegli anni terribili — sostiene
Schlögel — si devono leggere in controluce alcune pagine di Il Maestro e
Margherita (Einaudi-Bur) scritte proprio nel 1937. Nel libro di Michail
Bulgakov «incontriamo quasi tutti i temi che conferiscono un alone di
mistero all’anno 1937: il caos estremo, il dissolversi di qualsiasi
distinzione netta, le onde d’urto create dall’irruzione di forze ignote e
innominate nella vita della gente comune, la paura e la disperazione».
Nel romanzo di Bulgakov, prosegue Schlögel, «trovano posto anche
pressoché tutti i luoghi che fungono da palcoscenico per il dramma di
Mosca in quel periodo: la città gloriosa e l’orrore delle abitazioni
collettive; i luoghi pubblici e il loro vociare isterico;
l’ambientazione dei processi farsa; il luogo delle esecuzioni; ma anche i
rifugi in cui le persone cercavano un po’ di felicità». In quella Mosca
(e dintorni) in cui si calcola che su 139 segretari di zona del partito
che erano in attività nel 1937, a metà del 1939 ne restavano in carica
soltanto sette. Tutti gli altri erano stati arrestati, fucilati oppure
indotti a togliersi la vita.
Ma c’è un altro grande scrittore
russo che ha un ruolo importante in quel periodo storico. Il 1937,
infatti, fu anche l’anno del giubileo di Aleksandr Puškin, trasformato
da Stalin in un «oggetto di cultura di massa». «Nostro Compagno Puškin»,
lo definì Andrej Platonov, nonostante l’autore di La figlia del
capitano fosse morto cento anni prima. Il dibattito su di lui fu lungo e
meriterebbe una trattazione a sé. A Schlögel appare evidente che questo
gran parlare di Puškin «non si giocava unicamente su questioni di
critica letteraria, ma costituiva piuttosto un criptico e straniante
discorrere degli scrittori su se stessi, una sorta di discorso in codice
nel quale emergevano tutte le questioni che interessavano l’
intelligentsija russa». In relazione, a volte trasparente, alla stagione
delle grandi purghe che colpì anche «scrittori amici» venuti da fuori.
André
Gide, chiamato in Urss a tenere il discorso commemorativo di Maksim
Gorkij, tornato in Francia pubblicò le proprie impressioni destinate a
deludere i comunisti. In seguito Gide assieme a Georges Duhamel, Roger
Martin du Gard, François Mauriac e Paul River avrebbe firmato una
petizione perché nella Spagna repubblicana i comunisti non procedessero
contro il Poum con modalità, per così dire, moscovite. E con i comunisti
i rapporti si tesero sempre di più. Lion Feuchtwanger, appena giunto a
Mosca, nel dicembre 1936, scrisse ad Arnold Zweig: «Ho ricevuto
un’accoglienza tanto trionfale che per me è difficile evitare manie di
grandezza» e c’era anche un po’ di autoironia in quelle parole. Poi —
incontrati Stalin e Georgij Dimitrov — fu assalito da dubbi su quei
processi in cui «tutti gli imputati confessavano tutto». Il che non gli
impedì di ironizzare su Gide e di dare alle stampe un libro (di cui
vennero stampate duecentomila copie, subito esaurite) di impressioni
sostanzialmente positive sull’Urss. Walter Benjamin, giunto a Mosca nel
1926, era stato colpito dal silenzio per le strade che «non conoscono
rintocchi e suoni della campane». I sovietici corsero ai ripari
installando lungo quelle vie altoparlanti da cui diffondevano le
trasmissioni radiofoniche di partito. Ma anche musiche. Il giorno della
sentenza contro il «centro trotzkista» la radio manda in onda la Marche
funèbre di Chopin.
Quell’anno il Paese di Stalin riceve anche
apprezzamenti all’estero. Dal 25 marzo al 25 novembre 1937, l’Urss
trionfa all’esposizione universale di Parigi con la monumentale scultura
L’operaio e la kolchoziana di Vera Muchina; il tedesco Albert Speer ne è
impressionato e nella parte tedesca fa allestire un’aquila con la
svastica tra gli artigli destinata ad avere lo stesso impatto. Grande è
poi lo sconvolgimento tra gli scienziati. Il 22 luglio 1937 si apre a
Mosca il XVII congresso geologico internazionale. Dall’estero non si
presenta nessuno. Tra gli appartenenti alla delegazione sovietica ne
vengono arrestati 46 (a fine anno saranno 968). Al termine dei lavori, i
congressisti vengono portati a vedere i lavori per la costruzione del
canale Moscova-Volga, al quale lavorano gli «schiavi» alloggiati
nell’enorme campo di lavoro collettivo Dmitlag. Una lezione pratica,
afferma Schlögel, nella quale viene messo in evidenza un elemento
essenziale: «L’interazione tra ricerca e terrore, specializzazione e
lavoro forzato, il passaggio dalla scienza che rende possibile il
dominio della natura a quella che insegna a soggiogare gli esseri
umani». Gli scienziati sono portati a visitare un isolotto
dell’arcipelago «nel quale molti dei collaboratori e colleghi con i
quali avevano appena smesso di discutere sarebbero scomparsi».
L’ambiente
del cinema è travolto dalla controversia sul Prato di Bežin , un film
di Ejzenštejn di cui, su decisione del Politburo (5 marzo 1937) viene
distrutta la pellicola. Le colpe? «Carattere antiartistico» e «palese
infondatezza politica». Nel frattempo nella patria del socialismo si
sviluppa un grande conflitto nel mondo dell’architettura. Scendono in
campo giovani architetti contro la «vecchia guardia» di Moisej Ginzburg,
Aleksej Šcusev, Ivan Zoltovskij accusati di molte nefandezze fra cui
anche quella di essere ebrei. Ad Aleksej Šcusev architetto del Mausoleo
di Lenin, si imputa — con una lettera sulla «Pravda» — di essere un
«sabotatore dell’architettura socialista». Il «giovane» Viktor Vesnin
propone che Stalin e altri dirigenti del partito siano nominati
presidenti onorari del congresso degli architetti, dalla cui
associazione il «sabotatore» Šcusev viene espulso per la sua amicizia
con il «traditore» Tuchacevskij, oltreché per aver espresso eccessivo
apprezzamento nei confronti dell’architettura italiana e persino per
aver raccontato barzellette antisovietiche. Poco prima della fine di
questo dibattito tra architetti, arriva dall’America Frank Lloyd Wright
(con la moglie russa), il quale sostiene che gli Stati Uniti sono in
campo architettonico su una pessima strada: «I grattacieli», afferma,
«sono sconvolgenti, ma anche falsi e artificiali quanto la struttura
economica che li ha fatti nascere nel pieno di aree urbane
congestionate».
Il 1937 è anno di intrighi dappertutto in Urss,
anche in campo sportivo: vengono arrestati addirittura i fratelli
Starostin, popolari allenatori dello Spartak Mosca.
Il 19 febbraio
i giornali annunciano la morte per infarto di Sergo Ordžonikidze,
commissario del popolo per l’industria pesante. In realtà si tratta di
un suicidio. Che, però, non può essere ammesso dal momento che
un’apposta riunione plenaria del Comitato centrale alla fine del 1936 ha
stabilito che togliersi la vita — come molti imputati in questo genere
di processi avevano iniziato a fare — è da tenersi nel conto di un’
«arma del nemico». Sicché neanche i referti medici avrebbero dovuto
lasciar trasparire che si trattava di suicidi. A meno che in tal senso
non decidesse il partito per presentare l’accaduto come un’ammissione di
colpa. In quel 1937 nell’Armata Rossa si registrò un’autentica moria di
suicidi: si uccisero in 782. E l’anno successivo ancora di più: 832.
Figura
di primo piano in questa fase d’avvio del terrore fu Nikolaj Ežov,
commissario del popolo agli affari interni e protagonista, il 20
dicembre del 1937, della cerimonia ufficiale per il ventennale della
Ceka. Era un devoto di Stalin e — per dar prova della sua affidabilità —
aveva persino convinto la moglie Evgenija (all’epoca trentaquattrenne) a
togliersi la vita. Di lì a pochi mesi, nell’aprile del 1938, Ežov fu
degradato dal ministero degli interni a quello per la navigazione e il
25 novembre fu rimosso anche di lì, e la sua disgrazia travolse persino
l’amico scrittore Isaak Babel. Il suo posto agli interni fu preso da
Lavrentij Pavlovic Beria. Con la direttiva «Sugli arresti e sulla
carcerazione preventiva», emanata in novembre dal Comitato centrale, si
accennò per la prima volta a «gravi violazioni della legalità
socialista» da parte degli organi dell’Nkvd, all’estorsione di
confessioni e si decretò la fine delle esecuzioni di massa. Trascorsero
meno di due anni ed Ežov fu accusato di essere a capo di un complotto
contro Stalin, condannato e giustiziato. Va detto che Beria si sarebbe
rivelato ancora più crudele di lui e avrebbe subito la sua stessa sorte
nel 1953, subito dopo la morte del tiranno georgiano. Identico destino
era toccato al predecessore di Ežov agli interni, Genrich Jagoda, che
aveva costruito le prove per il primo processo (1936) contro Lev Kamenev
e Grigorij Zinovev ( i quali, pur essendo ebrei, «ammisero» addirittura
di essere stati arruolati dalla Gestapo) e venne poi, nel 1938,
processato, condannato e ucciso nel più celebre di questi dibattimenti,
quello contro Nikolaj Bucharin con altri dirigenti poco meno importanti
di lui. La casa di Jagoda fu perquisita e furono «rinvenute» 1229
bottiglie di vino delle pregiatissime annate 1897, 1900 e 1902; 3904
foto pornografiche (e undici film dello stesso genere); tre pianoforti a
coda; 71.008 posate antiche; 50 pellicce di scoiattolo e 43 di
astrakan. Più 542 volumi di letteratura controrivoluzionaria, trotzkista
e fascista. E questo era il reato considerato più grave.
Buc
harin, molto apprezzato da Lenin che lo aveva elevato a «beniamino del
partito», sarebbe stato definito dal procuratore generale Andrej
Vyšinskij (già rettore dell’università di Mosca nella seconda metà degli
anni Venti, di cui Schlögel loda preparazione culturale e nervi saldi,
definendolo «grande narratore e regista di storie criminali») «il
maledetto e ridicolo frutto del connubio tra la volpe e il maiale». In
carcere Bucharin fece lo sciopero della fame, chiese di vedere le prove
concrete della sua collaborazione con Hitler, ma i suoi nervi furono
messi a dura prova dalla circostanza che nel corso del dibattimento il
pubblico rideva rumorosamente ad ogni sua parola. Il processo che
avrebbe portato alla sua esecuzione — assieme a quella di Jagoda — turbò
l’ambasciatore statunitense che lo definì «scandaloso», Arthur
Koestler, che alluse a quel dibattimento in Buio a mezzogiorno
(Mondadori), e Maurice Merleau-Ponty, a cui ispirò Umanesimo e terrore
(Sugar). Nel corso dell’anno che precedette la sua esecuzione, in una
cella della Lubjanka, Bucharin ebbe la forza di scrivere quattro libri
per un totale di mille e quattrocento pagine.
Le annotazioni di
molti diari del 1937, anche diversissimi tra loro, sembrano quasi
bollettini di una guerra «in costante avvicinamento». In un primo
momento le vittime sono nomi sconosciuti appresi dai giornali, poco dopo
amici di amici, infine diretti conoscenti. Da ultimo l’uragano arriva
nella casa di tutti. «Curioso», annota l’ambasciatore americano Joseph
Davies, «soprattutto se si pensa che all’inizio della rivoluzione Lenin
aveva detto che avrebbe imparato dagli errori della rivoluzione francese
e non avrebbe permesso che i dissidi interni gettassero le basi per una
controrivoluzione». In effetti le uccisioni furono assai più che ai
tempi di Robespierre. Ma per molti versi, nota Schlögel, il 1937 fu per
bambini e adolescenti un normale anno scolastico, durante il quale
dovettero studiare e preparare gli esami, godendosi qualche giorno di
vacanza in più per il ventennale della presa del Palazzo d’inverno. «Che
periodo allegro! Per la prima volta mi sento attratta dalla scuola,
tanto che non riesco a stare a casa», troviamo scritto nel diario della
giovanissima Nina. «Non c’era Paese in cui la fame di istruzione e di
libri sembrasse più insaziabile», scrive lo storico dopo aver elencato
una gran quantità di indizi che comprovano ciò che è scritto nel diario
della piccola moscovita. Destinata, come moltissimi suoi coetanei, a
restare orfana a conclusione di quel momento della vita che pure a lei
parve felice.