Corriere 14.6.16
Fassino
Dai cancelli di Mirafiori a casa Agnelli Il volto da Novecento del comunista pontiere
di Marco Imarisio
Torino
«Piero, cambia faccia!». Al termine del primo confronto televisivo il
caloroso invito non gli è arrivato solo dai suoi collaboratori, ma anche
da sua moglie. La presenza della ex deputata Anna Serafini, che
salutava uno a uno i giornalisti nello studio di Sky, era un’altra prova
del fatto che il momento è delicato. L’atteggiamento, il linguaggio del
corpo mostrato da Piero Fassino in questa volata verso il ballottaggio,
è uno degli argomenti più dibattuti, nel suo campo e in quello
avversario. Sembra quasi che non riesca ad accettare di essere messo in
discussione, contestato addirittura, da un avversario inedito. «Ne ho
una sola, ed è questa», ribatteva arrabbiato agli strateghi elettorali.
«E non intendo cambiarla adesso, non ne sono capace».
Sulla faccia
dell’attuale sindaco, figlio della Torino antifascista e operaia,
progressista e moderata, c’è un bel pezzo di Novecento. Nessuno più di
lui nella politica di oggi è intriso dei fatti e dei valori del secolo
scorso. «Le questioni sono tre». L’altro giorno, guardando il faccia a
faccia in onda su Sky in una sezione di Borgo San Paolo, un tempo
quartiere operaio, i vecchi compagni si davano di gomito ogni volta che
ripeteva questo intercalare, che al pari di «è una priorità», altro suo
tormentone, viene dritto dalla scuola di partito, dai «manuali di
dibattito nelle assemblee di fabbrica» che venivano redatti in quella
Trofarello, un borgo appena fuori Torino, che stava al Piemonte come le
Frattocchie al resto del Pci.
Il nonno paterno si chiamava Piero,
era socialista e venne bastonato a morte dai fascisti per non aver
rivelato dove si trovava il figlio Eugenio, detto Geni, capo partigiano.
I Fassino erano ricchi di famiglia, carburanti e pompe di benzina.
Benestante e comunista, in odor di sacrestia, con l’iscrizione al Pci
che arriva a vent’anni dopo il collegio dai gesuiti. Da una chiesa
all’altra. Nel suo ufficio c’è una sola foto che gli ricorda quel che è
stato. Un giovane Fassino che accompagna Enrico Berlinguer ai cancelli
della Fiat, nel fatidico 1980 dei 35 giorni e della marcia dei
quarantamila. «Pronto? Sono Cesare Annibaldi della Fiat, l’Avvocato
vorrebbe conoscerla...». A trentadue anni diventa il primo comunista a
entrare in casa Agnelli. La sua fama di pontiere nasce presto. È il
comunista che piace alla grande industria, che tiene i rapporti con il
Psi vagheggiando una nuova stagione unitaria, che mette pace tra Massimo
D’Alema e Walter Veltroni, organizzando un loro incontro a due proprio
con l’Avvocato. Cucire, traghettare, come ha fatto con i Ds, ultimo
segretario prima dell’approdo al Partito democratico.
Ne ha viste
tante, Piero Fassino, l’ex responsabile fabbriche del Pci torinese negli
anni bui, uno dei primi a dire che le Brigate rosse giocavano «nella
nostra metà campo». Anche per questo, e per una immutabile dedizione al
lavoro, i vecchi militanti gliene hanno perdonate altrettante. Dal «mi
sono iscritto al Pci per combattere il comunismo» contenuto nella sua
autobiografia fino alla conversione al renzismo, parecchio lontano dalla
sua formazione culturale. Ma non aveva mai visto una sfida di questo
genere, portata nella città dove è cresciuto da un movimento nato e
cresciuto nel nuovo secolo, che utilizza strumenti moderni e a lui
ostici come la Rete, che non gli riconosce alcuna autorità morale, anzi.
Cambiare faccia. Come se fosse facile, con tutta questa vita, con tutto
questo passato.