Corriere 14.6.16
«A Ostia non era mafia»
La sentenza e le ombre sul caso Buzzi-Carminati
di Giovanni Bianconi
ROMA
Un anno e mezzo fa un tribunale sancì l’esistenza della mafia a Ostia:
un clan guidato dal boss Carmine Fasciani che s’era arricchito con la
droga e aveva pesantemente condizionato la vita dei cittadini su un
pezzo di litorale romano, quasi come Cosa nostra in Sicilia. Ieri la
corte d’appello ha ribaltato tutto: nessuna associazione mafiosa, bensì
un semplice gruppo di malavitosi dediti al traffico di stupefacenti.
Pene ridotte, quindi, e conseguente evaporazione della forza
d’intimidazione esercitata dalla presunta cosca.
Un esito
abbastanza clamoroso, che nei commenti all’interno del palazzo di
giustizia romano ha già allungato un’ombra sul processo a Mafia capitale
: gli stessi giudici del primo grado su Ostia, infatti, stanno ora
giudicando Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e complici per lo stesso
reato contestato dalla Procura guidata da Giuseppe Pignatone: il
magistrato arrivato da Palermo e Reggio Calabria che ha «esportato» il
reato di associazione mafiosa a Roma, come lo apostrofano molti
avvocati. Naturalmente fatti, prove e imputati sono diversi, ma il
verdetto di ieri sarà usato — in caso di condanne al «mondo di mezzo» —
come puntello per contestare la credibilità del tribunale e invitare ad
attendere i gradi successivi. Un successo per chi dubita della serietà
di quell’accusa, insomma.
Ma a parte le sovrapposizioni (forse
premature), anche sulla cosidetta «mafia di Ostia» la situazione non è
così chiara. Anzi, è piuttosto confusa. Di sicuro la sentenza d’appello
ha capovolto la prima, e bisognerà attendere le motivazioni (saranno
note fra tre mesi) per conoscere il ragionamento dei nuovi giudici. Nel
frattempo, però, la settimana scorsa è divenuta definitiva un’altra
sentenza d’appello per gli stessi fatti: quella nei confronti dei sei
imputati che avevano scelto il rito abbreviato, e dunque sono stati
giudicati prima e separatamente. Uno di loro era imputato di
associazione mafiosa, condannato in primo grado e assolto in secondo. Ma
prima di argomentare perché non era sufficiente la prova della sua
partecipazione al clan, i giudici d’appello hanno ribadito che il clan
esisteva, ed era un’associazione mafiosa in piena regola: un gruppo «con
al suo vertice Carmine Fasciani» che perseguiva i propri interessi
«avvalendosi della forza intimidatrice derivante sia dal concreto
esercizio della violenza, sia del condizionamento ambientale derivante
dalla stessa presenza dell’organizzazione criminale sul territorio». E
ancora: «La prova dell’esistenza dell’associazione di tipo mafioso
facente capo alla famiglia Fasciani risulta ampiamente supportata in
atti».
Su questo presupposto, ad alcuni imputati è stata
contestata l’aggravante del favoreggiamento della mafia. Un verdetto ora
definitivo, nel quale si legge il contrario di ciò che, verosimilmente,
sosterranno i giudici della sentenza di ieri. È il segno delle
difficoltà — in primo luogo giuridiche, ma forse anche «culturali» — ad
applicare fuori dalla Sicilia e dalle altre regioni del Sud un reato
istituito 34 anni fa all’indomani degli omicidi eccellenti di Palermo.
Ma neppure questa è una novità: proprio a Roma, negli anni Novanta, la
banda della Magliana fu considerata un’associazione mafiosa da una
sentenza definitiva (sempre in abbreviato) e non mafiosa da un’altra
(che ribaltò quella di primo grado), anch’essa con il sigillo della
Cassazione. Una contraddizione che non ha scalfito la sostanza e il peso
di quel lungo e articolato romanzo criminale.