Avvenire.it 21.06.16
Neuroscienze, se il rischio è la “mente oggetto”
di P. Viana
Ha
concluso la sua lectio magistralis con il Narciso di Caravaggio.
«Quando studiamo la nostra mente siamo come qualcuno che si sta
specchiando: l’obiettivo è studiare noi stessi in termini oggettivi, ma è
un’esperienza che si vive dall’interno, e non va dimenticato che è
altamente suscettibile di essere falsa»: Michele Di Francesco, rettore
della Scuola Universitaria Superiore Iuss di Pavia, è uno dei più noti
filosofi impegnati nella riflessione sulle neuroscienze e la settimana
scorsa ha affrontato le implicazioni filosofiche dell’attività
scientifica all’Irccs Fatebenefratelli di Brescia, dove da pochi giorni
si è insediato uno dei massimi esperti di neuroscienze, Stefano Cappa,
che dell’istituto di ricerca è il nuovo direttore scientifico. Di
Francesco ha spiegato come si stia andando verso una teoria unificata
sul funzionamento dell’universo mente-cervello.
Per un uomo di scienza mente e cervello sono sinonimi come lo sono, spesso, per la gente comune?
«La
risposta è complessa. Possiamo dire che una semplicistica
identificazione è molto problematica, anche se l’avvento delle
neuroscienze ha reso la tesi dell’identità fra mente e cervello molto
attraente. Parte della difficoltà è che il linguaggio con cui parliamo
di mente è spesso vago e impreciso e non è chiaro il significato delle
stesse domande che ci poniamo. Il bisogno di precisare l’oggetto di
studio sul piano linguistico e concettuale è consustanziale alla nozione
stessa di scienza (e prima ancora di filosofia), ma con la mente la
cosa è particolarmente difficile. Quando ci interroghiamo sulla
neuroscienza, sappiamo generalmente di cosa ci si occupa sul piano
cerebrale, ma non esattamente di cosa parliamo quando si tratta dei
fenomeni mentali correlati».
Che cosa rende il problema così difficile?
«Bisogna
ricordare che una nozione moderna di mente si inizia ad avere nel
Seicento, con Cartesio, nel quadro di un confronto tra i fenomeni
mentali e la scienza. Da questo punto di vista, quello che emerge nella
riflessione cartesiana, non è tanto il celeberrimo dualismo, ma la
difficoltà di conciliare il meccanicismo della scienza seicentesca con
le proprietà della cosa che pensa. La mente cartesiana è composta di
sensibilità e intelletto, ovvero si occupa di ciò che è soggettivo e di
ciò che è razionale, mentre il sapere scientifico mira all’oggettivo e
al causale. Qual è il rapporto tra soggettivo e oggettivo? Qual è il
rapporto tra ragioni e cause? Queste sono le domande che caratterizzano
l’inizio del confronto tra filosofia e scienza della mente. Queste non
sono domande facili da portare in laboratorio».
Un confronto impossibile, allora?
«Non
impossibile, ma complesso. Nel momento in cui lo studio della mente
identifica quest’ultima con la coscienza colta attraverso la certezza
introspettiva, si corre il rischio di innescare un conflitto con la
scienza. Il filosofo post-cartesiano concepisce la mente come intelletto
e sensibilità che si rivelano a un soggetto autocosciente, laddove lo
scienziato mira all’oggettività, cerca di misurare quantitativamente i
fenomeni, anche quelli mentali».
Come se ne esce?
«Nel ’900,
con lo sviluppo delle scienze cognitive, si ipotizza che la mente sia
un "pezzo" di natura. Questa impostazione rifiuta l’idea che la mente
sia un’entità sui generis, e trova il massimo sviluppo nelle
neuroscienze cognitive contemporanee, che hanno sviluppato tecnologie
capaci di indagare "dall’esterno" i processi mentali umani. Fino a
giungere in certi casi a una forma di completa oggettivizzazione della
mente. Con le parole di Crick, "tu non sei altro che un pacchetto di
neuroni", o di Le Doux, "tu sei le tue sinapsi"».
L’approdo riduzionista è inevitabile per un neuroscienziato?
«La
pretesa di ridurre la mente al cervello è forte, ma i miglior risultati
a mio parere si ottengono studiando la mente in un’ottica
multidisciplinare; neuroscienziati, psicologi, filosofi, ma anche
letterati e artisti hanno molto da dire sulla natura umana, con metodi e
strumenti diversi, e credo che il neuroscienziato abbia tutto da
guadagnare a confrontarsi con gli altri saperi, e lo stesso vale (e
forse a maggior ragione) per il filosofo, che non può permettersi di
ignorare le grandi scoperte che la scienza offre alla sua riflessione».
Quali sono le conseguenze di quest’ottica multidisciplinare?
«Sul piano pratico e dell’organizzazione della ricerca (anche in ambito sanitario) si tratta di incoraggiare il confronto tra le discipline umanistiche e quelle scientifiche, favorendo le occasioni di incontro e anche le collaborazioni sistematiche in centri interdisciplinari».