Repubblica Cult 15.5.16
Giorgio Agamben
“Credo nel legame tra filosofia e poesia Ho sempre amato la verità e la parola”
Gli
anni parigini con Italo Calvino, le lezioni di Heidegger e la Roma dei
Sessanta. Parla lo studioso che ha saputo spaziare tra estetica e
biopolitica
colloquio con Antonio Gnoli
Giorgio
Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e
tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella,
edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il
solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro
Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda
apparentemente ovvia? «È mia convinzione» – dice Agamben – «che la
filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire
l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle
università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari
progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di
colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la
poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a
qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si
produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo
in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e
scompare».
Offri un’immagine volatile della filosofia.
«Ho
l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi
categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una
sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto,
tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio».
Può verificarsi ovunque?
«La
filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può
tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo
carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità,
anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi,
non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia
recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono
acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di
inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti
delle sostanze. Se le sostanze e le discipline – come la vita, del resto
– rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse
decadono a pratiche burocratiche».
Un antidoto allo scadere nella
pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il
legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro
della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
«Ho sempre
pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due
intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni
opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero,
così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso,
Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di
Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io
stesso non saprei da che parte mettermi».
Nella tua biografia
intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi
piuttosto insolita dedicata a Simone Weil. Come è nata questa scelta?
«Scoprii
Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima
edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi
così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante
che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al
pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del
diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne
sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi».
Cosa ti colpì del suo pensiero?
«In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré.
Fu
a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla
nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge
intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica
dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai
abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio
della Weil la sua prima radice».
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
«Ci
sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi
per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano
di accompagnarci. L’incontro con Benjamin – come quello con Heidegger a
Le Thor – sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a
creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in
corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile».
Debito è una parola intensiva.
«Basti
qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a
estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un
determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente.
Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la
teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state
possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si
producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il
frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di
manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di
gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del
libro su Baudelaire a cui Benjamin lavorava negli ultimi anni della sua
vita)».
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
«Certamente.
Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in
Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso
al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione
di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono
che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel
mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault
e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha
poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente
essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente
archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o
nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo».
Un
altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy
Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che
ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
«Lo lessi
l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici
molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al
momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro
di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai
pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti.
Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che
frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta
abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via
dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire
dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla
poesia e dalla filosofia».
Di sé Debord disse: «Non sono un filosofo, sono uno stratega», secondo te cosa intendeva?
«Malgrado
quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun
conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un
problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo
attraverso un confronto con il suo tempo».
Negli anni in cui hai
vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con
lui, con le sue geometrie illuminanti?
«Accanto al nome di
Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo,
vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di
una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire
quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di
concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti
della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”,
“rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente
nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui
lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio».
Cosa ti seduceva?
«Il
fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che
percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe
saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra
cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino
geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una
straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto
fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia
del sapere letterario».
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
«L’incontro
e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una
volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo
all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare
che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi – da Rimbaud a
Simone Weil, da Mozart a Spinoza – che essa riconosceva e amava
condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente
seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella
sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora
che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura
e la filosofia».
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”.
Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
«Del
Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere
una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che
questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di
essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia:
nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte
lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il
pane doveva essere azzimo».
Hai anche accennato ai tuoi rapporti
con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e
poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
«L’incontro
con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia
memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non
toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino
del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante
una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno
eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e
io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi
interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi
sono solo aneddoti».
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
«La
filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo
perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico – penso
alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione
delle poesie postume di Caproni – ma perché filologia e filosofia, amore
per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere
separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse
cura di questa dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i
poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito
genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che
cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle
parole».