Repubblica Cult 15.5.16
I tabù del mondo
Il gesto di Abramo padre tormentato tra amore e timore
Saper
lasciare chi abbiamo generato nel deserto dell’esistenza. Non è forse
questo il gesto più difficile? Donargli la possibilità di abbandonarci
Nella
Bibbia si racconta di Isacco, il figlio amato e tanto desiderato che
Dio chiede ai genitori ormai anziani di sacrificare Ma accettando quella
richiesta estrema, rinunciando alla proprietà sull’unigenito, potranno
liberarlo dai lacci familiari e aiutarlo a diventare adulto
di Massimo Recalcati
Non
c’è forse racconto più sconvolgente di quello biblico del cosiddetto
“sacrificio di Isacco”. In esso sembra essere in gioco un rovesciamento
traumatico della paternità: la mano del padre non protegge la vita del
figlio, ma si arma per dargli la morte. Il testo biblico si impernia su
una richiesta paradossale e atroce che un Padre (Dio) muove ad un altro
padre (Abramo): che sacrifichi, in nome della fede, il suo figlio più
amato Isacco. «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco,
va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su un monte che ti
indicherò». Kierkegaard si è soffermato sullo scandalo di questa scena
in pagine memorabili di Timore e tremore facendo di Abramo un “cavaliere
della fede”. Secondo il filosofo danese il conflitto che attraversa
Abramo è quello tra due Leggi inconciliabili; da una parte la Legge
etica degli uomini che sancisce il dovere del padre di assumersi una
responsabilità illimitata verso il proprio figlio e, dall’altra, la
Legge di Dio che impone, assurdamente, che i limiti della Legge etica
vengano oltrepassati, scardinati, trascesi dalla Legge religiosa che
impone l’obbedienza assoluta verso Dio. È l’aut aut inaggirabile col
quale Abramo si confronta: se rispetta la Legge etica degli uomini si
trova a disdire la Legge religiosa di Dio; se invece segue la Legge
religiosa di Dio si mette in contrasto con la Legge etica degli uomini.
Nessuna sintesi dialettica tra le due Leggi è possibile. Resta solo
l’angoscia – il tremore – di fronte all’irrevocabilità della scelta. È
questo il dramma di Abramo che Kierkegaard segue: e se Abramo avesse
sentito male o avesse frainteso il comando di Dio? Avrà tentennato nei
tre giorni di viaggio trascorsi in compagnia del figlio per raggiungere
il monte Moria dove avrebbe dovuto compiersi il sacrificio umano? E
quali brividi attraversano il cuore di quel padre quando il figlio gli
chiede teneramente dov’è l’agnello che avrebbero dovuto sacrificare al
loro Dio senza percepire che è lui stesso ad essere la vittima
designata?
Senza addentrarmi in una lettura teologica di questa
scena vorrei cogliere laicamente il suo focus nel sacrificio a cui
Abramo e sua moglie Sara sono chiamati da Dio. In gioco è la rinuncia di
ogni proprietà sul loro amatissimo figlio. Ma che figlio è Isacco? Il
testo biblico lo presenta come il figlio della promessa. Egli viene al
mondo grazie alla parola di Dio da due genitori ormai anziani, fuori
tempo biologico, incapaci di generare naturalmente. In questo senso
Isacco è un puro dono di Dio. È il figlio tanto sperato quanto inatteso;
è, quindi, il figlio più amato, l’unigenito immensamente desiderato.
Ora, non è privo di importanza che Dio comandi che sia proprio questo
figlio, il più amato, il figlio da sacrificare. Perché? Nella lettura
anti-sacrificale proposta da André Wénin, Dio non esige il sacrificio
umano di Isacco ma esige che i suoi genitori lo sappiano perdere; che
sappiano rinunciare alla sua proprietà. In questo senso quando Abramo
risponde alla richiesta assurda del suo Dio offrendosi senza riserva
(“Eccomi!”) ci rivela il senso più profondo della paternità. “Eccomi!”
significa esserci, amare il proprio figlio sino al punto di rinunciare
ad ogni diritto di proprietà su di lui. Significa divaricare, come
accade in ogni paternità simbolica, la dimensione illimitata della
responsabilità da quella ristretta della proprietà.
Anche Sara
occupa una posizione particolare verso Isacco. Per lei più che per
Abramo, che ha già avuto un altro figlio, Ismaele, da una sua schiava, è
davvero il suo unico e insperato figlio. Non ne ha potuti avere prima a
causa della sua sterilità e non ne potrà più avere dopo a causa della
sua tarda età. Isacco è il solo figlio. E Dio le chiede di rinunciare
alla sua vita. Ecco che si palesa qui la prova più grande: perdere il
proprio figlio, il più amato, lasciarlo andare, sacrificarlo. Si tratta
di slegare il figlio dai lacci che lo vincolano alla sua famiglia e al
desiderio dei suoi genitori. Il coltello di Abramo non colpisce,
infatti, la carne del figlio, ma, guidato dalla mano dell’angelo, lo
libera dai lacci, lo slega, permettendogli di divaricare la sua strada
da quella dei genitori. Abramo rinuncia al rispecchiamento narcisistico
nel proprio figlio, accetta la discontinuità tra le generazioni, sa
abbandonare Isacco nel deserto. Non è forse questo il gesto che più di
ogni altro riflette il dono di un padre e di una madre? Saper
abbandonare, dopo averli amati e cresciuti, i loro figli nel deserto
dell’esistenza? Non a caso Sara morirà all’indomani del ritorno di
Abramo. E Isacco potrà trovare moglie in Rebecca solo una volta disceso
senza la compagnia del padre dal monte Moria. In questo senso lo stesso
Kierkegaard può scrivere che «con la fede Abramo non rinunciò a Isacco
ma con la fede Abramo ottenne Isacco», ovvero rese possibile ad Isacco
la sua libertà, la sua vita singolare sciogliendola dai lacci che lo
legavano alla famiglia d’origine. È questo anche il dono ultimo di Sara:
accogliere il proprio tramonto, la propria fine, lasciare andare il
figlio. La vita umana infatti esige la separazione e l’abbandono; esige
di incontrare il mondo al di là della famiglia. La sospensione del
sacrificio rivela qui tutta la sua posta in gioco: sono Abramo e Sara
che devono perdere il loro amato figlio unigenito, che devono
sacrificarne la proprietà per consentire al figlio di diventare un uomo.