Repubblica 9.5.16
“Limes” in edicola
Il fragile equilibrio delle nostre banlieue
di Lucio Caracciolo
ESISTE
il rischio jihadista nelle nostre città, nelle nostre periferie? Questa
domanda serpeggia nella pancia degli italiani. La risposta più comune,
da parte di studiosi e autorità pubbliche, oscilla tra il “no”
rassicurante e il prudente “meno che altrove”. Certo meno che a Londra,
Parigi o Bruxelles. Soprattutto per due fenomeni tipicamente nostrani:
non essere stati vero impero, non sentirsi vera nazione. La modesta e
tardiva proiezione imperiale comporta che rispetto alle metropoli delle
ex potenze coloniali europee le nostre città ospitino un minor numero di
musulmani (il 4% nella provincia milanese, la metà in quella
capitolina, contro le percentuali a due cifre di Londra o Parigi), in
maggioranza ancora di prima generazione. La tipologia dellabanlieue come
società parallela, ghetto per comunità allogene isolate dal centro
dominato dai cittadini “di ceppo”, non ha preso piede da noi.
Il
moderato sentimento nazionalistico e la tendenza a non enfatizzarlo
nella vita quotidiana favoriscono poi la disposizione all’accoglienza
del migrante, cui viene di fatto attribuito un ruolo economico e sociale
decisivo, fosse solo per limitare l’altrimenti irreversibile declino
demografico e per sobbarcarsi lavori cui i nativi sono ormai refrattari.
Sicché un Paese che non si pretende paradigma identitario può
costituire un caso di integrazione informale che culmina nella “ mixité
alla romana” o nel “multiculturalismo alla napoletana”. Architetture
sociali precarie, forse irriproducibili, eppure relativamente
efficienti.
Ma tali peculiari equilibri sono instabili. Le valvole
di sicurezza potrebbero saltare. La paura dell’alieno potrebbe
prevalere, istigando e legittimando la ghettizzazione. Così eccitando la
stigmatizzazione dello straniero, a cominciare dall’islamico. E la
diffusione di ghetti urbani a forte omogeneità etnica, monadi di
sofferenza e rabbia. Terreno di coltura per potenziali jihadisti.
L’ossessione
securitaria minaccia però di farci perdere di vista i termini davvero
decisivi della partita delle nostre periferie. Di quegli spazi che ci
ostiniamo a definire periferici, identificandoli non in base alla
geografia, che li renderebbe quasi indistinguibili dall’ipotetico
centro, ma al disagio urbano. Perché è da qui che conviene muovere per
identificare le “periferie” — le virgolette stanno a ricordare la
vaghezza del termine — e per tentarne la riqualificazione. Stefano Boeri
indica la polarità città-anticittà come più pertinente della coppia
centro-periferia nel determinare le direttrici della battaglia per la
riabilitazione del nostro frammentato tessuto urbano, che specie lungo
la fascia adriatica non ha quasi soluzione di continuità. Dove per
anticittà s’intende il degrado delle infrastrutture, dei servizi e degli
edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali che segnano storia
e spirito della civitas — pur sempre una specialità italiana — il
predominio delle mafie. Mentre città significa luoghi di aggregazione —
cominciando dalle piazze, dalle scuole, dai centri sportivi e artistici —
dove gente diversa costruisce insieme, a partire dalle proprie radici,
l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico.
Ricucire e
riabilitare il nostro territorio urbanizzato, dove grande capitale
privato e “imprenditori in canottiera” hanno dettato ritmi e moduli
della frammentazione urbana con un tasso parossistico di consumo del
suolo, significa progettare una strategia a tenaglia, che tenga insieme
“alto” e “basso”, pubblico e privato, nazionale e locale, centri e
periferie, italiani “di ceppo” e nuovi aspiranti italiani. Perché il
Paese delle cento città non scada a terra delle mille periferie.