Repubblica 9.5.16
La follia mite del figlio di Togliatti
In un libro la vita chiusa e dimenticata di Aldino
C’è
un prima e un dopo in questa storia: il ragazzo felice in Urss e quello
triste in Italia Ritrova per poco il padre solo quando anche Palmiro è
debole, in ospedale dopo l’attentato
di Simonetta Fiori
CHE
fosse strano lo si capiva dal nome, Aldino. O anche Aldolino. Mai
nessuno che lo chiamasse senza diminutivi, come se la sua estraneità
dolorosa al mondo richiedesse una protezione fin dall’appellativo. Forse
anche per bilanciare la monumentalità d’un cognome che sin dal
principio ha evocato la storia grande, le magnifiche sorti e
progressive, il Novecento dei totalitarismi e delle guerre, sì proprio
l’epoca a cui Aldo Togliatti non è riuscito a sopravvivere. A
sopravvivere da sano di mente, come recitano i referti
psichiatrici.
Il figlio matto del Migliore. Che idea bislacca quella di dedicargli un
libro di trecentocinquanta pagine, peraltro sulla base di pochi indizi,
qualche lettera, un paio di fotografie, un lungo mormorio imbarazzato.
Ma è un po’ stravagante anche l’autore, Massimo Cirri, psicologo attivo
presso i servizi pubblici di cura mentale più noto al pubblico come
autore e voce di
Caterpillar. Ed è strano un racconto costruito su
labili tracce e moltissime ipotesi di investigazione psichica,
supportate dalle testimonianze di chi c’era: i compagni di scuola a
Ivanovo, gli amici torinesi, i colleghi di lavoro, i diari dei dirigenti
del Pci, i cugini Montagnana.
E forse anche per questo Un’altra
parte del mondo piacerà ai lettori che con la storia hanno un rapporto
confidenziale, intimo, la prendono sottobraccio, magari la strapazzano
pure ma senza mai perdere di vista l’umanità dei personaggi. Perché
questa vicenda narrata da Cirri è piena di sensibilità e di delicatezza.
Animata da volontà di riscatto per gli sconfitti che non lasciano
memoria.
E alla fine viene voglia di abbracciare Aldo, perso nel
suo trentennale silenzio di Villa Igea, l’ospedale psichiatrico di
Modena dove viene rinchiuso nell’ultima parte della vita: elegante nella
camicia a righe, un borbottio sommesso tra sé e sé, nessun altro
ammesso in quel monologo sottovoce. E viene voglia di abbracciare anche i
suoi genitori, non solo la madre Rita Montagnana che lo protesse fino
alla fine – abbandonata dal marito e anche dal partito ma senza mai una
nota di rancore – ma viene da solidarizzare perfino con l’algido
Palmiro, che solitamente non ispira una grande simpatia. Perché se è
vero che alla fine è proprio lui la causa involontaria di questa storia
triste, resta la tragedia d’un figlio incapace di trovare un posto nel
mondo. Non è facile accettarlo per nessuno. Figuriamoci quando ci si
chiama il Migliore.
C’è un prima e un dopo, in questa vicenda del
figlio mattoide del leader del più grande partito comunista d’Occidente.
L’Aldino dei primi 18 anni è un ragazzo sveglio, colto, poliglotta,
abituato a muoversi tra l’Italia, Parigi e Mosca ai tempi del ferro e
del fuoco. Così ce lo racconta Cirri attraverso i suoi compagni di
Ivanovo, la scuola a trecento chilometri da Mosca dove finivano i figli
illustri della rivoluzione mondiale. L’Aldino era un ragazzo come gli
altri. Sembra un po’ più studioso e mostra un’attitudine da combattente:
non fu lui a guidare uno sciopero della fame contro gli educatori
sovietici? E Gino Longo, figlio di Luigi e di Teresa Noce, lo ricorda
nel febbraio del 1941 a Mosca, all’Hotel Lux, sedicenne operoso e
solidale, pronto ad accogliere lui e suo fratello arrivati stremati da
Parigi. Allora quando comincia la retromarcia dalla vita? Bisogna
aspettare la precipitosa fuga da Mosca all’arrivo dei nazisti,
nell’ottobre di quello stesso anno. Scappa Aldino, insieme alla madre
Rita, mentre Togliatti si rifugia a Ufa, capitale della Baschiria, dove
hanno trasferito l’Internazionale Comunista. È qui che comincia a
rompersi qualcosa, forse è la paura, forse il bisogno del padre assente.
Quando due anni più tardi apre la porta ad Anita, una sua amica ai
tempi di Ivanovo, non è più lui. «Molto timido», annota lei sul suo
diario. «Ha il terrore degli altri», sintetizza il padre con la consueta
brutale lucidità.
Il dopoguerra significa quiete ritrovata per
tutti ma non per Aldino, che vive il trasferimento dall’Urss in Italia
come intollerabile violenza. Perché non è un ritorno – come per i suoi
genitori – ma un inizio. Del suo paese non sa nulla, l’avevano portato
via quando aveva solo otto anni. Sembra di vederlo, in piedi nel vagone
del treno, mentre nell’estate del 1946 si sfoga con Luciano Barca. Un
fiume in piena, un’alluvione di parole, rientrando a Roma dalla
montagna. Il Migliore aveva chiesto al giovane dirigente Barca di far
compagnia ad Aldino durante il campeggio a Cervinia organizzato dal
partito. Per Barca una iattura: quindici giorni di tentativi falliti di
avviare una minima conversazione. Fino al viaggio del rientro, quando
cade il muro del silenzio ed esplode il flusso del dolore. Il dolore
dello sradicamento da Mosca, dalle sue amicizie rare ma profonde. Il
caos del Politecnico di Torino dove Aldo faticosamente tenta di
proseguire gli studi in Ingegneria. Tutto sembra bruciargli dentro. Ha
ventuno anni, Aldino, e la sensibilità d’un bambino senza pelle. E come i
bambini infelici vuole scappare.
Vuole fuggire in America,
un’altra parte del mondo che forse significa anche una vita nuova,
diversa, senza ferite. Senza quegli eroi ingombranti che sono i
genitori. Chissà cosa ha in mente quando a 33 anni lo trovano a notte
fonda sul molo di Civitavecchia: in stato confusionale, scruta la Bice
Costa, diretta a Hampton Roads, Virginia. E ci proverà anche dopo la
morte della madre, ormai cinquantenne e sempre più perso, questa volta
dalla banchina di Le Havre. Fughe improbabili, come improbabile era
diventata la sua vita.
Con il padre era stato un allontanamento
lento, senza traumi, dettato dalle cose: Palmiro si era costruito
un’altra famiglia, una nuova compagna e una figlia adottiva. Aldino
sempre più stretto nell’abbraccio materno tra continue cure
psichiatriche in Italia, in Ungheria, in Bulgaria, a Mosca: non lascia
scampo la diagnosi, schizofrenia. Si ritrovano, padre e figlio, nei
momenti estremi, quando anche Palmiro diventa debole e indifeso:
costretto in ospedale dalle pallottole di Pallante nel 1948 o più tardi
da un incidente in automobile. È nelle fotografie di quei giorni che
Aldo assume un’espressione serena, quasi compiaciuta: è lui che aiuta il
padre ad alzarsi, a fare i primi passi. Si sente apprezzato, forse
perfino utile. Ma dura poco perché Togliatti non è tipo da indulgere
nella propria fragilità. Quando muore, nel 1964, il fossato scavato tra
genitore e figlio è profondissimo. Davanti alla bara di Togliatti Aldo
sembra impietrito, distante. È l’ultima volta che lo vediamo in
pubblico.
Il Vegliardo, così l’avrebbe chiamato nell’ultimo tratto
di vita, quando il signor Pini gli portava a Villa Igea la Settimana
Enigmistica e le sigarette Stop senza filtro. Sì, un modo ironico, anche
un po’ sprezzante, un modo che a Palmiro non sarebbe piaciuto. In
realtà l’aveva sempre aspettato, il padre, ma non s’erano mai veramente
incontrati . E alla fine d’un racconto che non inventa nulla – «pareva
irrispettoso, ha avuto una vita già troppo complicata», scrive Cirri –
Aldo s’accomiata con le parole d’un soldato morto nella seconda guerra.
Parole rivolte proprio a un padre. «Mi manchi tanto, ti prego, vieni a
farmi visita. Vorrei tanto vederti pure per un’ora. Babbo, ti prego,
vieni qui». Lui l’aveva scritto in altro modo in un biglietto per
Togliatti spedito da Ivanovo: «Viens plus vite si tu peux», vieni prima
se puoi. Sempre mite, sempre rispettoso, come la sua follia gentile.
IL LIBRO Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri Feltrinelli pagg. 352, euro 18