domenica 8 maggio 2016

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Cattivissimi noi la normalità dell’odio nella lotta politica
Dipingere l’avversario come nemico assoluto non è una novità. Ma ora il disprezzo ha bisogno di spostarsi su interi gruppi e comunità
di Luigi Manconi

Premessa: è scontato che, sulla questione dell’immigrazione, o su altre problematiche non meno incandescenti, possano esservi opzioni culturali e politiche pubbliche totalmente diverse. I conflitti che ne derivano possono risultare assai aspri e fin dirompenti. E anche i vocabolari dei due schieramenti che si affrontano possono esserne condizionati e manifestarsi con particolare violenza. Ma, acquisito tutto questo, nel dibattito in corso si avverte qualcosa di terribilmente sgradevole. Un sapore di meschinità cattivista e di infamia dozzinale, che sembra perseguire più un effetto euforizzante che una argomentazione razionale a sostegno di una tesi o di quella opposta. E quell’effetto euforizzante si affida a fattori di colpevolizzazione e a procedure di persecuzione e di degradazione dell’altro.Si diràche anchequesti possono essere strumenti di lotta politica, quando questa diventa particolarmente cruenta. Ma c’è il rischio che, con ciò, si sottovalutino gli effetti perversi dell’avvelenarsi dello scontro politico. E di quanto può arrivare a produrre di malsano, fino all’odio. In altre parole, si può dire che, ormai da qualche tempo, l’odio è tornato a pieno titolo a manifestarsi nel conflitto politico e sociale. Negli ultimi decenni, mentre la criminalizzazione personalizzata del leader avversario e il suo character assassination raggiungevano il picco - con la ipostatizzazione di Silvio Berlusconi in trofeo di guerra - il dispositivo dell’odio tendeva a spostarsi verso gruppi, comunità e collettività. Tra i bersagli privilegiati, gli immigrati, i richiedenti asilo, i rom e i sinti. Tutti i provvedimenti relativi alle materie appena richiamate vengono promossi, accompagnati e incentivati da processi di mortificazione dell’oggetto stesso di quelle politiche. Quasi che misure di controllo, reclusione e di espulsione non possano realizzarsi che con il sostegno di un linguaggio e di una politica del disgusto. La spiegazioneè semplice e, allostesso tempo, corrisponde a una confessione: il contenuto di quelle misure esige, peressere motivato e ottenere consenso, di essere adottato nei confronti di chi si trovi, per le più diverse ragioni, nella sfera del“di - sprezzabile”. Sotto questo profilo, quelle tre principali figure prima richiamate - l’immigrato, il profugo e il rom - presentano esattamente tutti i caratteri del “disgusto”: non sono come noi, pretendono di essere come noi, risultano irriducibilmente altro da noi. E la fisiognomica esalta tutto ciò. Enfatizza, cioè tratti della personalità e connotati fisici, stili di vitae forme di relazione, parole e gesti, che non solo li rendono irreparabilmente diversi,mafinisconocon l’attribuire loro un carattere e un’immagine tali da suscitare ribrezzo. Il che sembra imporre presa di distanza e strategie di repulsione/espulsione. Ciò significa che, in qualche modo, l’odio è necessario. E soprattutto rischia di insediarsi stabilmente come fattore qualificante della lotta politica in tempi di crisi. Qui emerge una novità che va colta. Non c’è dubbio che in questo dopoguerra, ciò che ho chiamato avversione totale abbia percorso sentimenti e comportamenti di una parte significativa dei due principali schieramenti in conflitto, a partire da una categoria, quella del nemico assoluto, che univa i campi antagonisti. Mentre questa tensione estrema e radicale andava attenuandosi, smilitarizzandosi e politicizzandosi secondo regole condivise, il fuoco degli anni Settanta rilanciò quella categoria di nemicità che tuttavia coinvolse solo segmenti minori della società nazionale. Negli anni successivi, anche lo scontro politico più acre non vide contrapposti nemici, bensì avversari. Il berlusconismo, come si è detto, si avvicinò pericolosamente aquella dimensionedi bersagliototale, ma in realtà non ne assunse mai la valenza assoluta. Oggi, questo può accadere perché - in uno scenario connotato da lacerazioni economiche, sociali e istituzionali - il bisogno di un nemico-capro espiatorio si è fatto più urgente. Il vocabolario di quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive, leader politici e, soprattutto, la comunicazione online, sembrano non conoscere limiti, tabù, autocensure e autocontrollo. Questo investe solo in parte l’avversario politico, effettivamente ridotto a nemico in alcune circostanze, e coinvolge invece alcuni gruppi e alcune minoranze. È in questo clima che monta ciò che ho chiamato cattivismo: il piacere efferato di non provare compassione, la soddisfazione acida per l’uso brutale della forza, la tonalità belligerante del linguaggio. Nulla di tutto ciò è richiesto, in teoria, per argomentare e sostenere determinate politiche. Ma il gusto di Matteo Salvini nel comunicare la suavoglia di“prendere acalci inculo iclandestini”, la miserabile retorica della ruspa; e, poi, l’ag - gressività torva contro “i sorrisi”di Doina Matei; e l’assenza di pietà verso Bernardo Provenzano che, ridotto com’è in uno stato vegetale, non dovrebbe più essere considerato un nemico assoluto, ma un individuo in agonia. E nella sfera politica, il linguaggio feroce contro l’ex ministro Elsa Fornero, l’attuale premier Matteo Renzi e quelli precedenti, in particolare Silvio Berlusconi, ma anche contro Mario Monti, e le tortuose minacceindirizzate aLucia Borsellino;e, nel passatodi moltidi noi,quante paroletruci. Più in generale, il moto di rivalsa sociale che infallibilmente colpisce chiunque - tanto più se inizialmente vissuto come esempio di virtù - rivela una debolezza, palesa un cedimento, tradisce una crisi: tutto ciò, non va sottovalutato. La derisione del buo - nismo (atteggiamento quanto mai deprecabile) precipita rapidamente in esaltazione della spietatezza; la critica della solidarietà (virtù anch’essa assai discutibile) si fa in un batter d’occhio trionfo dell’egotismo più ottuso; l’enfasi sul realismo giustifica la prevaricazione più efferata. Tutto ciò, va da sé, è miseria. Priva di qualunque razionalità e mera espressione di conformismo atavico e di antiche feroci pulsioni. Purtroppo, non si tratta di secrezioni innocue.